Un colosso dai piedi d’argilla. Malgrado la drammatica esibizione muscolare di questi ultimi giorni, la Russia si ritrova con un’economia in grave difficoltà: una condizione che le sanzioni inflitte dagli Stati Uniti e dall’Europa stanno peggiorando giorno dopo giorno. Tutti i parametri economici destano preoccupazione: un’inflazione in crescita (potrebbe passare, a fine anno, dal 5 al 17%), i prezzi dell’energia in aumento e le esportazioni a rischio, a causa appunto delle sanzioni. Uno scenario spettrale, in un Paese che, malgrado le ricchezze di cui dispone – grano e idrocarburi, in primo luogo –, registra un tasso di povertà che viaggiava, alla fine dello scorso anno, intorno al 13%, con un 62% dei russi che dispone di un reddito (più di un terzo inferiore al nostro) sufficiente solo a pagare cibo e vestiti.
Tutti elementi, questi, che rappresentano plasticamente un quadro ben distante da quello relativo ai primi due mandati presidenziali di Putin, quando la politica del Cremlino restituì alla popolazione del Paese più grande del mondo uno stile di vita dignitoso, dopo i disastri provocati da Boris Eltsin, con una politica fatta di privatizzazioni selvagge e assoluta sudditanza all’Occidente e agli Stati Uniti, in particolare.
Con il nuovo scenario di guerra, i pur positivi dati – come un bilancio statale in pareggio o in attivo, e un debito pubblico che non supera il 18% del prodotto interno lordo – non migliora una situazione le cui previsioni sono preoccupanti. Secondo Goldman Sachs, in questa fase, il Pil potrebbe passare dal +2% al -7%, a causa – sottolinea “Milanofinanza” – delle restrizioni alle importazioni, mentre l’interruzione dei traffici nel Mar Nero contrarrà le esportazioni del 5%. Sempre a causa delle sanzioni, la Banca centrale russa non può accedere alle riserve di valute dei Paesi del G7 per stabilizzare la volatilità del rublo – il cui valore è dimezzato rispetto all’euro –ed è costretta ad alzare i tassi dal 9,5 al 20%. Con un rischio default che viaggia intorno al 67%.
Vale la pena di ricordare come l’economia russa sia basata su due elementi essenziali che la rendono particolarmente fragile, in caso di guerra e sanzioni. Secondo Raul Caruso, docente di Economia della pace presso l’Università cattolica di Milano “l’economia russa, da alcuni anni, non può essere considerata trainata da settori industriali e manifatturieri. Attualmente, solo il 13% del Pil, infatti, è riconducibile a questo, dato diminuito negli ultimi anni, se consideriamo che nel 2000 esso era già modesto ma comunque superiore al 15%”. Al contrario, “nel 2020, più del 50% delle esportazioni russe era costituito da idrocarburi e minerali, mentre i beni manufatti pesavano solo per il 21%”.
Da questo quadro, si evincono due cose. Da un lato, se una maggiore produzione di merci sarebbe stata più facilmente bersaglio delle sanzioni, avrebbe probabilmente costituito un freno, dall’altro, a un uso massiccio della forza, proprio in virtù della consapevolezza delle conseguenze. Invece, un’economia basata su gas e petrolio, almeno per il momento non sottoposti a sanzioni, lascia libero Putin di radicalizzare la guerra. Ma questo quadro potrebbe rapidamente cambiare. Una volta trovate delle alternative – tra queste, addirittura, l’odiato Venezuela del presidente Maduro –, anche le esportazioni di idrocarburi finiranno per essere sanzionate. In più, sottolinea ancora Caruso, “i costi dell’impegno militare saranno destinati ad aumentare, andando a determinare un ulteriore impoverimento dell’economia che, in un tempo non lungo, metteranno a rischio la tenuta interna del Paese stesso”.
Ma quali conseguenze può avere questa guerra sull’economia mondiale? In particolare sull’Europa e sulla Cina? Partendo dal vecchio continente – che con la Russia ha un interscambio economico importante, quantificabile, nel caso dell’Italia, in venti miliardi di dollari –, fin dall’inizio della guerra gli indici delle borse europee avevano perso circa il 4%; l’euro ha immediatamente perso valore sul dollaro, mentre il prezzo del barile ha superato quota cento, con le drammatiche conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto quando si va a fare il pieno di benzina. Il prezzo del gas si è impennato del 58% in un giorno solo, mentre quello del grano (di cui la Russia e l’Ucraina sono, rispettivamente, il primo e il quarto esportatore mondiale) ha raggiunto i 344 euro per tonnellata, il valore più alto mai toccato.
Secondo Davide Tentori, ricercatore di geo-economia presso l’Ispi (Istituto studi politiche internazionali), malgrado il ridimensionamento dei rapporti commerciali tra l’Europa e la Russia, dopo le prime sanzioni del 2014-15, “per l’Italia e la Germania la partnership commerciale con la Russia vale di più, rispetto agli altri Paesi europei, incidendo rispettivamente per il 3,4% e il 4% degli scambi totali con l’estero”, e facendo dunque restare il mercato russo “comunque molto importante per gli esportatori italiani”.
Per tutte queste ragioni, il variegato mercato europeo, in ripresa dopo la “recessione pandemica”, rischia ora parecchio, al punto che gli Stati stanno chiedendo di mantenere ancora per un po’ quell’elasticità nei riguardi del “pareggio di bilancio”, che era stata ammessa per la crisi da coronavirus. Ci sarà sicuramente un rallentamento della crescita, che in Italia era valutata intorno al 6-7%. Se è vero, dunque, che le sanzioni, le quali non hanno fatto finora cambiare minimamente idea a Putin, restano uno strumento “diplomatico” per combattere questa guerra, è anche vero che rischiano di essere un’arma a doppio taglio. “Materie prime, energia, politica monetaria, scambi commerciali: attaccata da più fronti, l’Europa – ammonisce Tentori – rischia di scoprirsi più debole e vulnerabile di quanto pensasse”.
L’altro fronte da considerare è quello cinese: come sta reagendo Pechino alla guerra russo-ucraina? La reazione politica del presidente Xi Jinping è stata relativamente chiara, ovvero quella di ricoprire un ruolo importante di mediatore e di pompiere della crisi che scuote quel modello di globalizzazione il quale, malgrado i conflitti con gli Stati Uniti, resta l’acqua in cui nuotare per l’economia cinese, che certamente (come l’Europa) rischia di uscire penalizzata dalla guerra. A cominciare dall’interscambio tra il gigante asiatico e l’ex Unione sovietica, che ammonta a ben venti miliardi di dollari, e che fa del Dragone il primo partner commerciale di Kiev.
Si capisce perciò facilmente come la guerra non abbia fatto piacere a Pechino, se consideriamo anche che, dall’Ucraina, arrivano importanti quantità di minerali di ferro e, nella misura del 30%, di mais, sebbene questa quota si sia ridotta in virtù di un accordo con gli Stati Uniti, che ha ridimensionato in parte i danni causati dal conflitto. Diverso, invece, il rapporto con la Russia, dalla quale arriva una quantità importante di materie prime, il che consente alla Cina di correre in soccorso a un’economia aggravata da sanzioni pesanti. A dimostrazione che la guerra ha rinsaldato, sia pure con ruoli evidentemente diversi, il rapporto tra i due nemici dell’Occidente, è arrivato un contratto che Gazprom ha firmato, nei giorni scorsi per progettare il gasdotto Soyuz Vostok che, attraverso la Mongolia, arriverà in Cina. Un progetto che potrebbe ridurre la dipendenza di Gazprom dal continente europeo, attualmente il più grande acquirente di gas russo. La Cina, insomma, si sta muovendo su due piani: per accreditarsi come il mediatore più affidabile della crisi in corso, forte sia dell’amicizia con Mosca – manifestata con la disponibilità a sostituirsi sul fronte economico all’Europa per evitare al gigante euroasiatico il tracollo – sia della capacità di mantenere un atteggiamento interlocutorio sul conflitto, astenendosi in sede Onu sulle sanzioni. Stiamo assistendo, così, a un rimescolamento delle carte su scala mondiale, che questo conflitto tutto europeo sta provocando; mentre Kiev assomiglia sempre più alla Siria, anziché alle luccicanti capitali di un continente in declino.