Potremmo definire la cosiddetta operazione militare speciale con cui Putin vuole cancellare l’Ucraina la più spietata strategia di cancel culture in atto nel mondo. Con lo sbriciolamento delle città ucraine, in nome di Pietro il Grande, e il rigetto di ogni eredità del sovietismo, viene espulsa dalla storia russa la memoria dell’ottobre rosso e si ripristina la continuità con l’impero zarista, la grande prigione dei popoli com’era definita nell’Ottocento.
Il freddo e distaccato annuncio dell’invasione, che il 24 febbraio Putin pronuncia si colloca esattamente in questo solco. Non è più la sicurezza, per le improvvide sortite atlantiche alle sue frontiere, a muovere le armate: Putin vuole resuscitare i confini dell’impero zarista per dichiarare che l’Ucraina non esiste come entità, che il suo è solo un popolo di pura appendice di quello russo.
Il distacco da Internet, proclamato come revanche per il boicottaggio decretato dal mondo digitale nei suoi confronti, è il simbolo con cui il despota russo inaugura la sua “retrotopia”, avrebbe detto Bauman – una corsa verso il passato. Rispetto alla velleitaria dichiarazione di Fukuyama, che considerava con l’89 finita la storia, oggi siamo dinanzi all’incubo che la storia possa reincarnarsi. Cosa anche peggiore.
Torna così persino lecito il quesito di Astolphe-Louis-Léonor, marchese di Custine, uno dei più brillanti analisti francesi del mondo russo della metà del Diciannovesimo secolo, che sintetizzava la contrapposizione che cresceva fra i Paesi europei, in ognuna delle loro stagioni politiche, con il gigante euroasiatico dominato da un potere così totale quale quello dello zar, chiedendosi se “è un tale popolo che rende indispensabile un dominio così dispotico, o è un dominio così crudele che rende il popolo così poco maneggevole?”. Un dilemma che incalza l’Europa da sempre, e che, paradossalmente, solo con la parentesi sovietica si era composto in un confronto ideologico e geopolitico razionale ed equilibrato.
“A voi non piace mai niente di quello che fa la Russia. Sia quando è debole che quando si mostra forte”. Alla domanda di Custine risponde Roj Medvedev, uno dei più prestigiosi storici dello stalinismo, coscienza critica del secondo Novecento europeo, tenacemente indipendente in ogni contesto, insospettabile di subalternità intellettuale sia con Breznev sia con Gorbaciov, e oggi, a 95 anni, analista impertinente ma mai accodato al nuovo zar Putin. Rigettando sull’Occidente evidenti responsabilità.
Medvedev era uno degli approdi dei miei pellegrinaggi nella Mosca della prima perestroika, tra il 1985 e il 1986, per trovare voci e chiavi di lettura di quanto Gorbaciov stava realizzando. Perseguitato per decenni dalla sclerosi autoritaria del dopo Krusciov, ma non riconosciuto nemmeno nell’ebbrezza della stagione di Gorbaciov, nel suo minuscolo appartamento, alla periferia di Mosca, per lunghe ore ricostruivamo i passaggi di quel processo che aveva prima generato e sostenuto il dominio di Stalin, poi alimentato la lunga bonaccia brezneviana, per arrivare, infine, alla svolta del nuovo leader riformatore. Successivamente, avrebbe anche decrittato il fenomeno Eltsin per arrivare all’ufo Putin.
Il riferimento a cui mi richiamava continuamente, in quei lunghi e tetri pomeriggi invernali russi, in cui la notte sembra tutt’uno con il giorno, per misurare gli eventi, e prevedere gli esiti di mosse che apparivano a me sorprendenti, o ingiustificabili, era la pancia del Paese, l’istinto della grande Russia, che parlava un linguaggio diverso, a volte addirittura antagonistico alle lingue a cui eravamo abituati in Occidente. Mai, diceva, nemmeno nelle versioni più autocratiche e dittatoriali, dagli zar al “piccolo padre” del Cremlino, il potere russo ha trasceso e ignorato la coscienza del suo popolo. Era questa pancia, la sua muta frustrazione, che cercava sempre un nemico esterno su cui scaricare le proprie sofferenze, sempre intrecciato a quell’atavica paura, a quel timore permanentemente evocato, quando non provocato dai suoi vertici, di essere violati e umiliati, che dava forma e sostegno alla verticalità del potere in quel grande Paese, che si trovava sempre sul filo di una mobilitazione militare: da Pietro il Grande, a Caterina, fino ai Romanov, per arrivare poi alla rivoluzione di Lenin e al nazional-bolscevismo di Stalin. Un senso comune autistico, che abbiamo sempre confuso con la cieca ubbidienza alla violenza di un dittatore, mentre era il modo in cui un popolo, da sempre oppresso, trovava il modo di parlare al capo, di partecipare alla storia. Come scriveva Hannah Arendt, analizzando i meccanismi del consenso popolare al totalitarismo nell’Europa del fascismo dilagante, “le plebi irrompono sulla scena anche a costo della propria distruzione”.
Riprende questo filo rosso, sul crinale fra psicologia e antropologia, Medvedev nella sua lucidissima e cruda intervista al “Corriere della sera”, in cui interpreta la sfida di Putin all’Occidente. Un’intervista che diventa più persuasiva e utile se letta in controluce con un altro ragionamento, quello di Fiona Hill, ex responsabile del desk Russia alla Casa Bianca, fino a quando non è stata cacciata da Trump, raccolto da “Politico.com”. Leggendole in parallelo, diventa più agevole cogliere la geografia di quei riflessi mentali e culturali che, in queste ore, stanno guidando la mano dei vertici delle due potenze.
Se il novantacinquenne storico russo – lucidamente, quasi con freddezza – guarda alle ragioni di Putin, spiegando che “non c’è nulla di male a voler ricreare una Russia che almeno come territorio si richiami ai confini dello zar Pietro il Grande”, per poi aggiungere a compimento della sua visione “la maggioranza dei russi è d’accordo con quel che sta accadendo. Solo che a voi occidentali non piace ammetterlo”, non fa propaganda, ma cerca di darci i termini di una realtà che faremmo male a stravolgere. Abbiamo dinanzi – dice Medvedev – un leader che si realizza ripristinando i confini della “grande Russia”, e su questo può contare su un largo consenso interno. È bene saperlo.
E Fiona Hill mostra che il concetto è da tempo chiaro a Washington “Sta ristabilendo il dominio russo su quello che la Russia vede come l’imperium russo. Lo dico in modo molto specifico, perché le terre dell’Unione sovietica non coprivano tutti i territori che un tempo facevano parte dell’impero russo. Quindi questo dovrebbe farci riflettere. Putin ha articolato l’idea che ci sia un Russky mir o un ‘mondo russo’. Nel recente saggio che ha pubblicato sull’Ucraina e la Russia afferma che il popolo ucraino e russo sono “un popolo”, uno yedinyi narod. Sta dicendo che ucraini e russi sono la stessa cosa. Questa idea di un mondo russo significa riunire tutti i russofoni in luoghi diversi che a un certo punto appartenevano allo zarismo russo”.
Con questo dobbiamo confrontarci oggi. Ci sono stati errori in Occidente, ammette la stessa analista americana: “Penso che il suo sia stato un piano logico e metodico, che risale a molto tempo fa, almeno fino al 2007, quando ha messo in guardia il mondo, e certamente l’Europa, sul fatto che Mosca non accetterebbe l’ulteriore espansione della Nato. E poi, nel giro di un anno, nel 2008, la Nato ha aperto una porta alla Georgia e all’Ucraina. All’epoca ero un ufficiale dell’intelligence nazionale e il National Intelligence Council stava analizzando ciò che la Russia avrebbe probabilmente fatto in risposta alla dichiarazione della ‘Nato Open Door’. Una delle nostre valutazioni era che esisteva un rischio reale di una sorta di azione militare preventiva russa, non solo limitata all’annessione della Crimea, ma anche a un’azione molto più ampia intrapresa contro l’Ucraina insieme alla Georgia. E, naturalmente, quattro mesi dopo il vertice di Bucarest della Nato, c’è stata l’invasione della Georgia. Non c’è stata un’invasione dell’Ucraina, allora, perché il governo ucraino si è tirato indietro dal cercare l’adesione alla Nato. Ma avremmo dovuto affrontare seriamente il modo in cui avremmo affrontato questo potenziale risultato e le nostre relazioni con la Russia”.
Lo smacco subito trasforma la prostrazione in aggressività. Intrecciando geopolitica e ideologia, Putin coltiva una strategia che mira alla base del sistema occidentale, alla sua democrazia rappresentativa. Il Cremlino diviene il promotore di quel processo di radicalizzazione dei moderati occidentali, che attacca la credibilità del sistema istituzionale, da Trump alla Brexit, alla convergenza giallo-verde in Italia. Milioni di elettori pressati e manipolati mediante soluzioni tipo “Cambridge Analytica”, diventano piattaforma di una rivolta anti-sistema. Si unificano i ceti protestatari e speculativi su una base di massa della destra più estrema, e si mette in campo una strategia reazionaria, con lo slogan “fare come lo Zar”.
L’Ucraina torna a essere laboratorio di questa nuova autodifesa, spiega ancora la Hill: “Ma in mezzo a tutto questo, l’Ucraina è stata il Paese che è scappato. E quello che Putin sta dicendo ora è che l’Ucraina non appartiene agli ucraini. Appartiene a lui e al passato. Cancellerà l’Ucraina dalla mappa, letteralmente, perché non appartiene alla sua mappa del ‘mondo russo’. In pratica ce lo ha detto. Potrebbe lasciare dietro di sé degli Stati fantoccio. Fondamentalmente, se Vladimir Putin fa a modo suo, l’Ucraina non esisterà come l’Ucraina moderna degli ultimi trent’anni”.
Uno scenario che Medvedev non contesta, semplicemente vede come inesorabile in questo metaverso al contrario “Come sfera di influenza, tornerà geograficamente ai tempi di Gogol, nostro sommo scrittore che era nato in quello che oggi è territorio ucraino, ma tutti considerano russo. La storia non passa mai invano. Neppure Putin pensa di riprendersi l’intera Ucraina. Solo quella russofona. Quanto alla minaccia nucleare, nessuno ci pensa davvero.Sono solo parole”.
Ma allora su cosa trattare? E con quale deterrenza, quale forma di interdizione per costringere Putin a fermarsi? Se in discussione non è più la politica ma la storia, anzi di più, il proprio inconscio, come trovare un’intesa? Siamo forse a uno snodo del tutto inedito, in cui mancano esperienze e perfino parole per trovare il modo di dialogare.
L’assenza, ormai, di ogni canale di informazione reciproca, di un luogo in cui comunque scambiarsi segnali o avvertimenti crea un vuoto pericoloso. La ritirata da Mosca di tutti i grandi service provider, di tutte le piattaforme, di ogni attività condivisa, dalle carte di credito a Tik Tok, ci risospinge in quel limbo silenzioso della prima guerra fredda, dove però si agiva con tempi e modi tipici della lentezza analogica. Oggi, invece, si precipitano le decisioni senza più reti di sicurezza, ambiti in cui saggiare, testare, misurare una qualsiasi reciprocità. Non ci sono, per questo, ricette o proposte, come la politica ci ha sempre insegnato a sforzarci di avanzare. Siamo in una terra di nessuno in cui appare fondato quel conflitto di civiltà che Samuel Huntington aveva teorizzato in ben altro contesto. Dall’America, da uno dei suoi tipici “esperti”, la delusione di non avere più tra le mani alcuna bacchetta magica, come traspare dall’amara conclusione della Hill: “È in circolazione da ventidue anni ormai, ed è arrivato a questo punto dal 2008. A proposito, non credo che inizialmente fosse partito per fare tutto questo, ma l’atteggiamento nei confronti dell’Ucraina e i sentimenti che tutta l’Ucraina appartiene alla Russia, i sentimenti di perdita, sono stati tutti lì e si stanno accumulando. Quello che la Russia sta facendo è affermare che ‘il potere fa bene’. Certo, sì, abbiamo anche commesso errori terribili. Ma nessuno ha mai il diritto di distruggere completamente un altro Paese: Putin ha aperto una porta in Europa che pensavamo di avere chiuso dopo la seconda guerra mondiale”.
Mentre lo storico russo, smaliziato da mille scossoni, torna a una nuova idea di civilizzazione: “Invecchiando si perde la pazienza. Non ne posso più della retorica occidentale. Esistono modelli di società diversi da quello americano. I primi a capirlo avreste dovuto essere voi europei. Ma vi siete sempre rifiutati di riconoscere questo fatto così evidente. Il mondo non è più bipolare, e sta andando in un’altra direzione. Putin e la Russia vi hanno aspettato a lungo. E poi hanno deciso di fare da soli”. Sembrerebbe uno scenario ideale per una sinistra che possa proporsi come architetto di una nuova idea di convivenza e di democrazia. Ma questa sinistra non c’è. E le macerie di Kiev, attorno alle quali si balla addirittura, rivendicando una rivincita sull’89 grazie alle bombe del despota russo, ne rappresentano il mausoleo.