L’idea che la guerra attuale sia il risultato di una politica poco lungimirante da parte dell’Occidente e della Nato, che avrebbero teso a estendersi troppo a Est dopo la fine del “socialismo reale”, è in parte fuorviante. Non fa i conti con la storia di lungo periodo. Che è stata purtroppo molto più catastrofica di quello che alcuni faciloni potrebbero credere. Mario Pezzella (nel suo articolo pubblicato qui) comincia a occuparsene, senza tacere peraltro le responsabilità dell’Occidente.
All’inizio c’è la rivoluzione russa del 1917 che, come Pezzella non manca di sottolineare, prova veramente nelle intenzioni a spezzare la spirale dei nazionalismi che avevano condotto all’immane tragedia della prima guerra mondiale. Si vedrà però in breve – nell’assenza di quella rivoluzione in Europa che i bolscevichi si aspettavano a scadenza ravvicinata – che, con la teoria del “socialismo in un solo Paese” intorno a cui si costruiranno le prime fortune staliniane, e sotto la cappa del collettivismo burocratico che viene affermandosi, i nazionalismi interni saranno soltanto repressi o sedati, non superati.
L’impero multinazionale e multietnico degli zar, con tutte le sue contraddizioni, viene a essere liquidato formalmente: tuttavia – al di sotto della superficie dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, e sotto quella forma di totalitarismo che ha nome stalinismo – resta attivo un tempo storico profondamente arcaico-tradizionale, in un processo di “sviluppo” a basso tasso di “progresso” (per usare una distinzione cara a Pasolini), che riesce comunque a vincere la sfida lanciatagli da Hitler nel corso di quella che va sotto il nome, non a caso, di “grande guerra patriottica”. Il fatto che Stalin sia stato venerato come “piccolo padre” – un appellativo che si dava allo zar, e che significa “secondo solo a Dio” – la dice lunga su che cosa sia stato, con il suo afflato persino mistico finché è durato, il “culto della personalità”.
Seguono, dopo la parentesi di una destalinizzazione molto incerta, gli anni dei brontosauri sovietici, eredi di un impero vieppiù esteso dopo la seconda guerra mondiale. Nulla di tutto ciò, da tempo, ha più a che fare con il socialismo e il comunismo. Si tratta di un sistema post-totalitario – un ibrido, un po’ ancora totalitario e un po’ non più, se si pensa a quella che fu detta la “direzione collegiale” dopo Stalin –, con i tratti di un capitalismo di Stato centralizzato e di un insieme di spinte particolaristiche e nazionalistiche, facenti capolino qua e là, che si manifestano apertamente in chiave antirussa nel 1956 a Budapest (soprattutto qui) e – in forma meno antirussa, ma di fatto filoccidentale – a Praga nel 1968. La risposta, da parte sovietica, in ambedue i casi è l’invasione, secondo il teorema della “sovranità limitata”.
Il sistema implode negli anni Ottanta del Novecento (con il progressivo distacco della Polonia, e anche per via della lunga guerra condotta in Afghanistan, ma questa è un’altra vicenda). Tenere insieme l’enorme baracca basata sull’industria pesante, sulle spese militari e così via, nella situazione di una sempre più diffusa e generalizzata aspirazione ai consumi (per dirla con una formula), diventa insostenibile. L’ideologia ufficiale affonda, e – nella perdita di senso del mito collettivistico della costruzione dell’“uomo nuovo” – il crescente individualismo atomistico viene a essere controbilanciato, piuttosto, dal risveglio dei mostri del sentimento nazionale rimasti a lungo più o meno ibernati. Ciò senza però quasi minimamente intaccare, nella “centrale” russa, il dominio della casta burocratica consolidatosi nel tempo. La continuità tra i vertici sovietici e il passaggio di un ex funzionario del Kgb a presidente “eterno”, con la sua ristretta cerchia di oligarchi arricchiti dalle privatizzazioni, ha un che di stupefacente. La famiglia dello zar fu sterminata; la casta sovietica non solo è sopravvissuta al suo stesso crollo, ma nel cambio ci ha guadagnato. Tutt’al più si potrebbe parlare, con Pareto, di una “circolazione delle élite”: il giro della casta un po’ si è allargato, ed essa è diventata, da prevalentemente burocratica, prevalentemente affaristica. La riforma in senso democratico dell’Unione sovietica, tentata da Gorbaciov, purtroppo è fallita, probabilmente perché quel sistema era irriformabile.
Ci si poteva almeno consolare della circostanza che il venir meno di un impero fosse avvenuto con un tasso bassissimo di spargimento di sangue (a differenza di quanto accadde, negli anni Novanta, per lo smembramento della federazione jugoslava, in cui peraltro gli errori, da parte dell’Occidente, furono palesi). Ma nel decennio 2000, proprio con il “duro” Putin e la sua guerra nel Caucaso, si vide che le cose stavano diversamente: contro il separatismo ceceno fu usato il pugno di ferro, nella pressoché totale indifferenza dell’Occidente, perché (come accade oggi in Egitto, per fare un paragone) il sangue dei massacrati apparteneva soprattutto agli islamisti radicali.
Oggi siamo a un nuovo capitolo della stessa storia. Sfruttando le conseguenze di una pandemia (neanche ancora veramente domata) e un ormai sempre più visibile declino dell’Occidente, economico e “imperiale” (evidente soprattutto nel precipitoso e disordinato ritiro americano dall’Afghanistan), Putin e la sua cerchia hanno pensato bene di sferrare un attacco a un Paese in gran parte filoccidentale, macchiatosi negli anni scorsi della colpa di voler cambiare la propria posizione geo-strategica. È una riedizione del teorema della “sovranità limitata”, che potrebbe riguardare anche la Georgia – in cui pure, nel 2008, Putin sferrò una rapida guerra – o il piccolo territorio separatista filorusso della Transnistria, nell’Est della Moldavia.
Una risposta occidentale, a questo punto, si è fatta necessaria. Sappiamo benissimo che non c’è da fidarsi dei nazionalismi di nessun tipo; ed è certo preoccupante che il presidente Zelensky abbia invocato una no fly zone della Nato sui cieli ucraini, che avrebbe avuto come conseguenza lo scontro diretto tra la Russia e i Paesi occidentali. C’è però da distinguere tra un nazionalismo aggressivo, come quello russo, e un nazionalismo aggredito, come quello ucraino – questo anche senza tener conto della posizione marcatamente europeista del secondo. Perciò è indispensabile, oltre alle sanzioni economiche, l’invio di armi, affinché la resistenza ucraina costringa presto o tardi il Cremlino a trattare.