[Nel contesto in cui ci troviamo, abbiamo ritenuto opportuno ripubblicare questo articolo uscito su “terzogiornale” il 3 dicembre 2021] Ex Jugoslavia, ritorna l’incubo della guerra? Sembrerebbe di sì. E questi presagi nefasti hanno un nome e un cognome: Milorad Dodik, sessantadue anni, serbo ultranazionalista, membro della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina (insieme con il bosniaco musulmano Šefik Džaferović e con il croato Željko Komšić). Malgrado trent’anni fa fosse vicino al riformista Ante Marković, ultimo primo ministro della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, il leader serbo ha fatto una giravolta di 360 gradi, manifestando chiaramente l’intenzione di ricostituire un proprio esercito serbo-bosniaco, e quella di trasferire le competenze esclusive della capitale Sarajevo in favore della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina.
A Banja Luka, di fatto capitale della Repubblica serba, Dodik vorrebbe portare alcune strutture parallele, sottraendo in questo modo alla capitale Sarajevo molte delle già scarse competenze esclusive dello Stato centrale. Tra queste, l’agenzia del farmaco, organismo importante in tempi di pandemia, parallelamente a una rimodulazione del sistema di tassazione e di quello della giustizia. Il tutto condito da esercitazioni della polizia e dell’esercito serbo-bosniaco nei pressi di Sarajevo.
Lo spunto per riaccendere la miccia di un mai sopito nazionalismo è presto detto: prima di passare il testimone a Christian Schmidt, l’austriaco Valentin Izko – Alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia, l’autorità istituita per garantire l’attuazione degli accordi di pace firmati a Dayton nel 1995 – aveva imposto un emendamento al codice penale bosniaco che vieta, con pene fino a cinque anni di carcere, sia l’esaltazione dei criminali di guerra come Mladic e Karadzic, sia la negazione del genocidio di Srebenica, che Dodik ha invece sempre definito “un grande crimine” sminuendo la gravità dell’evento. Una provocazione per il leader nazionalista e per chi, come la Russia e la Cina, lo sostengono contro quello che Mosca e Pechino non esitano a definire un atteggiamento “post-coloniale”.
Putin ha minacciato di porre il veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu in occasione del rinnovo della missione internazionale Eufor Althea, qualora non fossero stati eliminati i riferimenti dell’Alto rappresentante ai nuovi reati previsti ma non contemplati dall’intesa del 1995. Richiesta che è stata accolta.
Per Giorgio Fruscione – politologo, giornalista e insegnante di italiano che risiede a Belgrado – “nel dopoguerra, la politica bosniaca si è sviluppata a più livelli lungo le direttrici dei tre gruppi costituenti, i cui principali partiti hanno saldato i propri progetti nella difesa dell’interesse nazionale, piuttosto che sulla promozione di un’identità unitaria e trasversale, e ciò specialmente nel caso dei serbi e dei croati. L’unitarismo bosniaco-erzegovese – prosegue lo studioso – è stato promosso quasi esclusivamente dai partiti bosgnacchi, cioè bosniaco-musulmani, che rappresentano circa la metà della popolazione; mentre la politica dei serbo-bosniaci, un terzo della popolazione, ha costruito le proprie fortune alimentando la paura di un’assimilazione, se non addirittura di una cancellazione nazionale. Ed è per questo che Dodik e il suo partito, che da quindici anni detengono il monopolio politico in Repubblica serba, hanno ciclicamente minacciato un eventuale referendum per l’indipendenza dell’entità”.
Sul fronte internazionale si profila una qualche speranza di aiuto per dirimere questo ginepraio? Purtroppo no. A cominciare dagli Stati Uniti, i cui interventi nel mondo (vedi l’Afghanistan) creano più problemi di quanti non ne risolvano. Malgrado l’incontro tra l’inviato speciale del Dipartimento di Stato, Gabriel Escobar, e Dodik – il quale avrebbe mostrato una disponibilità a “discutere il ritiro delle leggi che indeboliscono le istituzioni centrali” –, un vero e proprio impegno a continuare le trattative non è stato manifestato dai due soggetti in campo. Restano le sanzioni già comminate verso il leader serbo – impossibilità di recarsi negli Stati Uniti e congelamento delle proprietà negli Usa –, armi ormai spuntate per risolvere le crisi internazionali.
Ambiguo l’atteggiamento della Serbia. Il presidente Aleksandar Vučic vuole seguitare ad apparire come il leader garante della pace e dell’integrità territoriale bosniaca, ma continua a essere alleato di ferro di Dodik. Tuttavia Belgrado è sempre uno dei sostenitori, con la Croazia, degli accordi di Dayton, e questo ruolo potrebbe tornare utile per evitare una precipitazione della situazione.
Poi c’è l’Europa. Contro le smanie serbo-bosniache, Bruxelles può ben poco, visto che improbabili sanzioni non sarebbero condivise dalla Slovenia e dall’Ungheria. C’è inoltre la questione dell’ingresso nell’Unione. Un evento di fatto impossibile visto che la Bosnia-Erzegovina non gode neanche dello status di “candidato”. Per la giornalista dell’“Huffington Post” Giulia Berardelli, “il futuro di Sarajevo, storico crocevia dei destini europei, appare sempre più lontano dall’Unione europea. La Bosnia-Erzegovina è un Paese che non ha ancora lo status di candidato perché prima dovrebbe attuare una montagna di riforme impossibili da realizzare in uno Stato paralizzato da una metastasi burocratica e istituzionale che affonda le sue radici negli accordi di Dayton del 1995. Da anni Sarajevo – conclude Berardelli – è sola, intrappolata in un labirinto da cui sempre più persone scelgono di fuggire, soprattutto giovani”.
Una scelta drammatica, quella dell’esilio, che potrebbe comportare nei prossimi decenni un calo della popolazione del 30% circa: fuga favorita anche da una recessione economica che gli aiuti europei, da un lato, e quelli della Turchia e degli Emirati arabi uniti, dall’altro, non contribuiscono a mitigare a sufficienza.
Quali prospettive si aprono per il Paese balcanico? Sono ormai passati ventisei anni da quell’accordo firmato nella piccola città dell’Ohio, Dayton, dopo quattro anni di massacri. Da allora il mondo è molto cambiato. Da un lato, c’è la Russia, presente allora al tavolo delle trattative ma senza essere protagonista della scena mondiale come oggi; e dall’altro c’è la Turchia di Erdogan, che punta a ricontrollare quei territori una volta parte dell’impero ottomano. Con Stati Uniti e Unione europea che rischiano di ricoprire invece un ruolo di comprimari nella risoluzione della crisi. Come sta già succedendo, con tutte le differenze del caso, in Libia. Anche nel Paese nordafricano, infatti, sono Erdogan e Putin a farla da padroni, con la Germania, la Francia e l’Italia che cercano affannosamente di intervenire per garantire il regolare, quanto complicatissimo, svolgimento delle elezioni a fine dicembre (vedi in proposito l’articolo di Guido Ruotolo).
Non è fantapolitica ritenere che questi rapporti di forza si ripropongano anche a Sarajevo e dintorni. Molto realisticamente, se l’intesa tra i due autocrati servirà a evitare il peggio, ben venga quell’intesa. Resteranno in un angolo le democrazie occidentali, sempre più incapaci di gestire le varie crisi internazionali che si presentano senza soluzione di continuità. Ma di fronte alla possibilità di un nuovo bagno di sangue sarebbe certo il male minore.