Non c’è dubbio che Putin stia conducendo una guerra di aggressione e che le sanzioni nei suoi confronti siano giustificate. Tuttavia l’autorevolezza morale e politica di chi le sta imponendo è prossima allo zero. Sono gli stessi Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia (e l’Italia come ruota di scorta) che hanno invaso e distrutto, o contribuito a distruggere, quattro Stati sovrani – Iraq, Afghanistan, Libia, Mali – senza subire sanzioni, che nessuno del resto ha osato chiedere. I droni e i bombardamenti hanno prodotto in quei Paesi le stesse devastazioni a cui oggi assistiamo in Ucraina. Anche lì sono morti bambini e sono stati distrutti ospedali. Ma le vittime non erano europee. E i profughi di quei Paesi sono destinati ai campi di concentramento.
Questa ipocrita discordanza di atteggiamenti nasce da lontano; nel 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, gli Stati Uniti si sono comportati peggio degli Alleati nel trattato di Versailles, che imposero condizioni dure alla Germania sconfitta con le conseguenze nefaste, che gli storici hanno più volte messo in evidenza. L’Unione Sovietica, dopo l’89, è stata frammentata, umiliata, sottoposta a un capitalismo predatorio e primitivo; gli oligarchi oggi scomunicati erano sostenuti e considerati gli alfieri del mondo occidentale in territorio barbaro, affidato – per quel che ne restava – a un leader ubriacone a libro paga della Cia.
Eppure ormai si dovrebbe sapere che il risentimento è una delle molle oscure della storia, che i ruoli di carnefice e vittima sono mobili e intercambiabili, e che l’arcaico meccanismo della vendetta di sangue, spostato a livello politico, è una sciagura, un debito insoluto, un destino, che occorrerebbe mitigare e interrompere, com’era nelle utopie del primo socialismo. Si usava un tempo un termine, ora passato di moda, per indicare il cupo risentimento degli sconfitti verso i vincitori che superano la misura del giusto e si rendono colpevoli di hybris: revanscismo; dei francesi contro i tedeschi, dei tedeschi contro i francesi, e via di seguito, in una catena debitoria vittima-carnefice che nessuno ha il coraggio di interrompere. Purtroppo questo meccanismo demoniaco corrode le fondamenta stesse di una cultura, e la rende incapace di sopravvivere, come ha mostrato Simone Weil in un suo doloroso saggio sull’Iliade e la violenza mimetica.
Non dovremmo dimenticare (come invece fanno sistematicamente i media mainstream) che noi, Putin, gli americani, i francesi, gli inglesi, facciamo parte dello stesso ordine economico-sociale capitalista con sfumature variabili di neoliberismo autoritario, un ordine che procede lentamente – ma inesorabilmente – verso l’autodistruzione di sé e della terra, lacerata da imperialismi concorrenti.
Sono abbastanza incomprensibili le nostalgie di chi vorrebbe vedere in Putin un “vendicatore” ed erede dell’Unione Sovietica, che lui ha contribuito a corrompere e distruggere. Le guerre servono anche a rallentare il declino economico e politico; ma poi, in ultima analisi, producono un’accelerazione delle pulsioni distruttive. Pensiamo solo alla devastazione ambientale, che, grazie alla guerra, passa ormai sotto silenzio, con gran sollievo di tutti i potenti del mondo. Viva il carbone e viva il nucleare, fino alla prossima devastazione pandemica. Con ogni probabilità, tutti i parametri ambientali diventeranno catastrofici in breve tempo, e questa non è l’ultima ragione dell’insensatezza della guerra di Putin. Ma è tutto il sistema – di cui anche lui fa parte – a essere in stato agonico. Agonia protratta, grazie al katechon delle guerre e dello sfruttamento, ma non all’infinito.
In questa situazione non compare né un’alternativa né un nuovo soggetto politico. Ciò è veramente drammatico. In fondo è difficile rispondere al dilemma se è meglio che vincano i nazionalisti russi o quelli ucraini, così com’è difficile considerare la Nato un’incarnazione del bene. Non dico che Putin o Zelensky siano fascisti nel vecchio senso: tuttavia si sono serviti e si servono dei loro rispettivi neonazisti, come fanno del resto i governi della Polonia e dell’Ungheria, a sostegno del loro nazionalismo brutale, ben tollerato dall’Unione europea. Il fascismo è risorto, è in buona salute, si è aggiornato, serve molto nelle guerre “sporche” dei nazionalisti presentabili.
Non conosco abbastanza la tradizione messianica della cultura russa, per poterne parlare con cognizione di causa. Non basta aver letto Dostoevskij e Tolstoj. Siamo abbastanza ignoranti, come lo eravamo sulla differenza tra sciiti e sunniti nella guerra del Golfo. Poco conosciamo il conflitto storico tra uniati e ortodossi, che fa parte della storia dell’Ucraina, della divisione che esiste tra la parte occidentale e quella orientale di questo Paese. Non sarà una Lilli Gruber a colmare le nostre lacune, o i giornalisti che si improvvisano storici di Paesi così diversi dal nostro. Finché non avremo una sufficiente cognizione di causa, ogni nostra affermazione, anche quelle dubbiose che qui vado facendo, resta ampiamente rivedibile.
Non so nulla del Donbass, e le informazioni che arrivano sono confuse e deformate dalla propaganda di guerra. Con tutta la cautela del caso, ci si può azzardare a dire che dovrebbe valere lo stesso principio accettabile per l’Alto Adige, la Catalogna, la Corsica, la Sardegna, la Bretagna, la Provenza, la Scozia e l’Irlanda del Nord. Il diritto all’autodeterminazione, con referendum liberi e garantiti, dovrebbe prevalere su quello degli Stati nazionali, nati e costruiti in modo per lo più violento e arbitrario. L’Europa dovrebbe fondarsi su regioni federate, non su Stati-nazione. Ma forse è tardi, forse siamo al finis Europae, stiamo riprendendo e concludendo la vicenda iniziata nel 1914.
In effetti quanto accade sembra la conclusione di un ciclo storico iniziato allora, che il comunismo non è riuscito a interrompere, lasciando riemergere la natura profondamente reazionaria che covava al fondo dei Paesi dell’Est europeo, anche di quelli improvvidamente ammessi nell’Unione. Com’era generoso il tentativo di Lenin di allargare lo Stato federato di Ucraina, cedendogli le due province del Donbass, le più ricche di giacimenti minerari! Perché la sua utopia superava i limiti degli Stati: ma come può comprendere questo il becero nazionalismo di Putin, che si permette battutine funeree su denazificazione e decomunistizzazione?
La ex Jugoslavia è stata la prova generale di quanto potrebbe accadere in tutta l’Europa dell’Est. Anche allora la smania Nato di dissolvere un Paese comunista (prescindendo dal fatto che di comunista ormai non c’era più quasi niente) ha prodotto solo il riemergere dei fascismi nazionali (o veramente vogliamo credere che i croati fossero più “buoni” dei serbi?). Così come distruggere l’Iraq ha prodotto la recrudescenza del fondamentalismo.
L’irrazionalità di questa guerra è profonda. Perché la Nato ipotizzava di mettere missili in Ucraina, quando li ha già su una parte ampia del confine russo? Perché Putin invade l’Ucraina, quando i suoi missili già ora possono colpire fino all’Oceano Atlantico? Che follie sono queste? Sembra di stare nell’Ottocento, alla guerra di Crimea, e la furia immaginaria prevale su ogni considerazione razionale. In effetti, questo appellarsi ai “popoli”, invece che alle classi o agli strati sociali, è il sintomo più sicuro della regressione storica che stiamo vivendo. Quando si sente invocare la “patria”, il “popolo”, la “nazione”, è molto probabile che sotto il tavolo (come quello enorme di Putin) si stia affilando il coltello per un delitto. Spero solo che l’interesse, se non la pietà, faccia cessare questa guerra, che come tutte colpisce i deboli e gli innocenti. I quali si trovano nelle strade, non nei palazzi di governo.