A differenza di ciò che accadde a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968, la resistenza di Kiev ha un mondo con sé. E anche se la guerra è la prova che il Novecento non è stato affatto quel “secolo breve” che Hobsbawm riteneva che fosse, ed è piuttosto un secolo lunghissimo che non vuole finire, non c’è più una “cortina di ferro” a proteggere o a nascondere la bruttura dell’invasione. C’è l’appoggio di una “società civile mondializzata” che, grazie alle nuove tecnologie, è in grado di tenere aperto un canale costante d’informazione, e di disturbare con l’hackeraggio le comunicazioni degli invasori. Inoltre, ed è la cosa più importante, esiste una retrovia europea: non soltanto i profughi trovano accoglienza – e sarebbe il minimo –, ma gli Stati dell’Unione, unanimi nel condannare l’aggressione, stanno inviando armi a sostegno della resistenza ucraina. Che essa riesca a reggere, a questo punto, è fondamentale. Putin e la sua cerchia, infatti, avevano mirato a una rapida conquista di Kiev e alla sostituzione del suo governo con uno fantoccio. Se ciò fosse avvenuto, o se avvenisse ancora in tempi brevi, la folle scommessa potrebbe dirsi vinta.
Ma la resistenza dell’Ucraina, in cui uno spirito nazionale contrario a quello russo è evidentemente molto vivo, ha spinto Putin a una ripresa dei negoziati, sebbene non si sappia quale effetto possano avere. Il presidente Zelensky – che ha rifiutato l’offerta americana di mettersi in salvo abbandonando il Paese – non è il personaggio debole e inefficace che si poteva credere che fosse; anzi, il suo comportamento appare oggi improntato a una determinazione inizialmente insospettabile. Ciò ha scompaginato i piani del Cremlino che, nonostante abbia posto in preallarme la difesa nucleare, non può non temere il precipizio di una guerra mondiale almeno quanto lo temiamo noi, e potrebbe quindi ricondurlo a ragione, dando una chance alla trattativa diplomatica.
Affinché questo accada, le sanzioni da parte occidentale sono essenziali. È importante anche l’intervento sul sistema Swift circa le transazioni commerciali internazionali. In una situazione come questa, infatti, non si può stare a pensare al prezzo da pagare per stare dalla parte di Kiev, e neppure alle forniture di gas che la Russia, del resto, potrebbe interrompere per ritorsione, anche indipendentemente da una specifica sanzione. Germania e Italia, che dipendono in larga misura dal gas russo, possono trovare altri fornitori, sottoscrivendo nuovi contratti, per esempio con l’Algeria. E si dovrebbe accelerare sui piani di transizione energetica. La guerra in Ucraina, a questo riguardo, potrebbe essere – oltre a quella terribile sciagura che è – addirittura un’occasione da cogliere per mettere mano ai programmi.
Infine – considerazione generale – non ci si può non lamentare di una storia che non è andata per il verso giusto neanche questa volta. L’Unione Sovietica avrebbe dovuto riformarsi in senso democratico, non dissolversi. La sua rottura ha sprigionato, infatti, i nazional-populismi, i particolarismi a sfondo etnico, quelle patrie in cui qualsiasi “inventore di una tradizione” (per parafrasare ancora Hobsbawm) può trovare nutrimento, perché la storiografia può essere manipolata a piacere. Ciò vale per la Russia come per l’Ucraina, ed è la premessa obiettiva di tutto quanto sta accadendo. Soltanto la paziente, lenta ricostruzione, o per meglio dire la costruzione ex novo, di una cultura politica internazionalista, democratica e socialista, potrà alla lunga ovviare alla tragedia cui stiamo assistendo.