Facile porre fine al contenzioso tra la Russia e la Nato: basterebbe che la prima chiedesse di entrare nella seconda! Così, già inutile dopo la fine del Patto di Varsavia, l’Alleanza atlantica diventerebbe superflua del tutto e finalmente potrebbe sciogliersi. In fondo, già prima che si dissolvesse l’“impero del male” (come lo aveva chiamato Ronald Reagan), i “due mondi” avevano mostrato più punti di contatto che differenze: stessa brutalità nell’affrontare le controversie internazionali (gli Stati Uniti con la guerra nel Vietnam, l’Unione Sovietica con l’invasione dell’Afghanistan), stesso industrialismo spinto, con disprezzo totale dell’ambiente. Per arrivare a un ingresso della Russia di Putin nella Nato, tuttavia, sarebbe necessario che essa non fosse quel regime illiberale e nazionalista che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, che non avesse annesso la Crimea, che non mirasse oggi, probabilmente, ad annettersi il Donbass, che si comportasse in questa zona di frontiera con l’Ucraina non diversamente dagli austriaci nel Sud Tirolo. Che fosse, insomma, un’economia capitalistica come tutte le altre, e non quel sistema governato da un ex del Kgb, nostalgico di una grandezza che non può tornare, espressione degli interessi di un’oligarchia che conta, a quanto pare, non più di ventimila persone.
Dall’altro lato, ci vorrebbe una potenza statunitense non declinante e angosciata come quella odierna, che non avesse fatto guerre senza capo né coda qua e là sul pianeta, com’è avvenuto negli ultimi decenni, ma capace di favorire, con l’iniziativa economica e politica, lo sviluppo democratico dei popoli. Che fosse insomma quella forza progressiva che pretenderebbe di essere, in particolare nella sua versione liberal.
Ma il capitalismo occidentale, e tantomeno quello di Paesi come la Russia e la Cina (sia che si presenti ancora con il volto di una burocrazia “comunista”, sia che abbia finto di trasformarsi in una semplice repubblica presidenziale), sono ancora capaci di coltivare al loro interno qualcosa che assomigli a un “sogno”? Entrambi sembrano ormai i relitti di utopie naufragate tra i flutti della storia: capitalismi diversi ma analoghi, che non hanno più niente da dire su nessuno degli argomenti oggi vitali: né riguardo a un’emancipazione degli individui dalle molteplici forme di oppressione presenti, né intorno alla preservazione di un ambiente sempre più violentato, o sulla difesa di una specie umana a rischio di catastrofi perfino più devastanti della recente pandemia.
Sotto alla retorica – sia quella, nefasta, nazional-populista, sia quella liberaldemocratica meno nefasta ma ipocrita – si può leggere la verità del vecchio detto: il capitalismo porta la guerra come il vento la tempesta. E non si tratta più della contesa protonovecentesca tra le nazioni per i mercati da controllare, ma proprio della impossibilità, da parte del capitalismo, di affrontare e risolvere le questioni della nostra epoca. Le dispute internazionali, allora, come il grande diversivo.