Uno degli argomenti al centro dell’attenzione mediatica degli ultimi giorni è stato quello delle decisioni della Corte costituzionale a proposito dei referendum sulla responsabilità civile dei giudici, sulla legalizzazione della coltivazione della cannabis e sull’eutanasia, giudicati inammissibili. Tali decisioni hanno ovviamente suscitato reazioni opposte: i promotori dei referendum le hanno criticate aspramente, mentre gli oppositori dell’uno o dell’altro quesito (specie degli ultimi due elencati) le hanno salutate con gioia. Tutti, o quasi, però, continuano a insistere sull’importanza fondamentale dei referendum come “espressione della volontà popolare”. Ma chi stabilisce quale sia l’autentica “volontà popolare”? Questo problema si pone per quanto riguarda sia l’interpretazione dell’eventuale vittoria del quesito referendario, sia il modo in cui tale quesito è formulato.
Anzitutto vorrei notare un fatto curioso: molti di coloro che ora inneggiano alla “volontà popolare” sembrano dimenticare che, negli ultimi dieci anni, ben quattro presidenti del Consiglio (Monti, Renzi, Conte e Draghi) non sono stati scelti tra gli eletti dal popolo; tuttavia, soprattutto per quanto riguarda il primo e l’ultimo nome della lista, li si è presentati come una sorta di scelta obbligata, anzi, nell’ultimo caso, è stata coniata l’espressione “governo dei migliori”. Ora, ammesso e non concesso che si tratti veramente dei “migliori”, delle due l’una: o la “volontà popolare” viene tirata in ballo solo quando fa comodo, oppure ne esistono degli interpreti autorizzati. Mi ricorda un po’ quello che succedeva all’oracolo di Delfi: la Pizia, richiesta di formulare il suo responso, lo forniva mediante enigmatici suoni o movimenti del corpo, che i sacerdoti avevano poi il compito di decifrare e formulare in parole.
Anche la “volontà popolare” dei cultori del referendum sembra simile al responso della Pizia: il ruolo dei sacerdoti è esercitato a volte da autorevoli opinionisti, a volte da politici che di questa pretesa volontà si erigono ad interpreti. Pensiamo a un caso specifico di referendum abrogativo approvato, cioè quello del 1993 sull’abolizione della legge che fino ad allora regolava l’elezione del Senato (proposto da Mario Segni, e fortemente appoggiato dai radicali, Pannella in testa), presentato come un referendum per introdurre il sistema maggioritario. Una parentesi: il referendum sulla responsabilità civile dei giudici è stato appena bocciato perché istitutivo anziché abrogativo (l’unico tipo di referendum previsto dall’art. 75 della Costituzione). Non posso che essere contento della decisione, a prescindere dalle sue motivazioni: se una proposta del genere fosse approvata, qualunque giudice avrebbe paura di un imputato ricco e potente, che potrebbe intentargli direttamente causa in caso di sentenza sfavorevole, mentre non avrebbe questo genere di timori se l’imputato fosse un povero cristo. Ora, il referendum Segni del 1993, essendo semplicemente abrogativo (e diversamente non sarebbe stato ammissibile), non doveva necessariamente portare all’istituzione di una legge elettorale maggioritaria, e tanto meno alla Camera, il cui sistema elettorale non era coinvolto nel quesito. Tuttavia, i sacerdoti di Delfi di turno, capeggiati da Pannella e in genere sostenuti dai media, sancirono che la “volontà popolare” era quella di avere una legge elettorale maggioritaria e così fu.
Il problema di come sia da intendere la “volontà popolare” non riguarda però solo il modo in cui va interpretato l’eventuale successo di un referendum abrogativo, ma anche quello in cui il quesito viene presentato, in quanto una tale presentazione può indubbiamente influire sull’atteggiamento degli elettori, la stragrande maggioranza dei quali, ovviamente, non legge l’intero contenuto del quesito proposto sulla scheda, spesso incomprensibile ai più, come quando si propone di abolire solo alcuni commi, o alcune righe, o anche solo alcune parole, di una legge.
Ed è a questo punto che vorrei ritornare sul referendum relativo all’eutanasia, bocciato con la motivazione che la sua eventuale approvazione avrebbe reso di fatto possibile l’omicidio del consenziente, indipendentemente dalle sue condizioni effettive di salute. Premesso che trovo assolutamente scandaloso che il nostro parlamento non abbia ancora emanato una legge sul fine vita, nonostante ci sia da tempo un invito della stessa Corte costituzionale a legiferare in materia, veniamo alla formulazione del quesito, che ricavo da quello che presumo essere il sito dei promotori:
Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con R.D. 19 ottobre 1930, n.1398, comma 1 limitatamente alle seguenti parole “la reclusione da 6 a 15 anni”; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole “Si applicano”?
Se il quesito fosse stato approvato, la nuova formulazione dell’art. 579 in questione suonerebbe così:
Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso:
- 1. contro una persona minore degli anni diciotto;
- 2. contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
- 3. contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.
(Gli articoli 575-577 citati sono quelli che determinano la pena minima per il reato di omicidio e le eventuali circostanze aggravanti).
Quindi l’omicidio del consenziente non diventerebbe mai punibile, tranne nei casi in cui la vittima sia inferma di mente, o non nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, oppure preda di minaccia o inganno. Anche un esito di questo genere non sarebbe da demonizzare a priori: nell’antichità romana, chi voleva togliersi la vita, ma non aveva il coraggio di farlo da sé, ricorreva all’aiuto di uno schiavo o di un amico. Successivamente, la nostra etica è cambiata, senz’altro per effetto del cristianesimo, e un’azione del genere è stata giudicata illecita, anzi gravemente illecita. Ciò non toglie, però, che l’etica potrebbe essere cambiata nuovamente, e l’omicidio del consenziente, qualora quest’ultimo sia effettivamente tale, potrebbe essere considerato ammissibile. Si tratta di una questione di tale portata che non mi azzardo minimamente ad approfondirla: mi limito solo a porla.
In ogni caso, è chiaro che con “eutanasia” non si intende, oggi come oggi, “omicidio del consenziente” in genere, ma solo del consenziente che si trovi in una particolare, insopportabile, situazione di salute. Questa era certamente l’intenzione dei promotori; ma è altrettanto certo che non corrispondeva alla formulazione del quesito: e la Corte costituzionale non poteva fare altro che bocciarlo. Quindi, l’etichetta con cui è presentato un quesito referendario, prima e dopo l’eventuale dichiarazione di ammissibilità, a volte non corrisponde al suo effettivo contenuto: eppure è proprio tale etichetta su cui la “volontà popolare” è in realtà chiamata a esprimersi, dato che è alquanto improbabile che, come nel caso in questione, siano molti gli elettori che andrebbero a leggersi il testo modificato dell’articolo di legge da abolire.
Probabilmente, l’intento dei promotori (molti dei quali combattono da anni una nobilissima battaglia, spesso a loro rischio, contro l’autentico calvario a cui sono sottoposti alcuni cittadini e le loro famiglie) era quello di forzare il parlamento a emanare in tempi brevissimi una legge sul fine vita, tenendo conto della possibilità concessa dalla legge referendaria (cioè quella che attua l’art. 75 della Costituzione) di ritardare di sessanta giorni gli effetti dell’abrogazione: in altre parole, se entro sessanta giorni dalla proclamazione dei risultati del referendum, una legge sul fine vita avesse visto finalmente la luce, escludendo i casi di omicidio del consenziente che non si configurano come eutanasia, non ci sarebbe alcun effetto negativo. Si tratta però di una strada molto azzardata, considerato il funzionamento del nostro parlamento. La lezione da trarre, in ogni caso, è che non si possono modificare le leggi col semplice meccanismo del “taglia e incolla” sottoposto alla “volontà popolare”.
Per concludere: non sto sostenendo che l’istituto del referendum sia da abolire, ma che dovrebbe essere utilizzato solo quando il suo esito possa esprimere la volontà popolare senza virgolette, cioè in modo automatico e inequivoco. È quello che è successo nel caso dei referendum sul divorzio e sull’aborto, in cui, sarà stato un caso, la risposta vincente fu “no”, perché si trattava di difendere due leggi che erano autentiche conquiste democratiche. In altre occasioni, la maggioranza dei comuni cittadini non è in grado di fornire una risposta precisa, e quindi l’interpretazione della “volontà popolare” rimane sempre nelle mani degli autoproclamati sacerdoti di Delfi.