C’è stato un tempo non lontanissimo in cui, fin dalla prima serata (in tipografia si chiudeva presto), i giornalisti di Tijuana – nello Stato messicano della Bassa California – potevi incontrarli in pizzeria, da “Teresita”, dietro il Paseo de la Revolución, non lontano da dove recentemente ha aperto “Cacho”, che il forno per la pizza se lo è fatto venire direttamente da Napoli. Stanchi di tacos e passata la moda del sushi, avevano ripreso con la margherita, mozzarella, pomodoro e un pizzico di chili (un messicano non può rinunciare al piccante). Attorno a cui venivano sfilacciati intrighi e segreti non solo politici, veri o in buona parte presunti. Ma anche allora bastava una faccia sconosciuta e curiosa a provocare qualche allarme.
Nei loro discorsi, anni addietro – insieme con la politica, l’economia e l’inevitabile contorno di chiacchiericcio –, c’era già qualche morto ammazzato, raramente un collega, per lo più gente di malaffare o di molta sfortuna – quando non un riciclatore di capitali inconfessabili o un prestanome infedele, sempre indicato per allusioni. La violenza, in Messico, non spaventa quasi nessuno, e comunque non se ne parla mai abbastanza. Da quelle parti, più che altrove, solo l’infernale traffico automobilistico urbano e suburbano sovrasta ormai l’eco delle mitiche cavalcate di Pancho Villa e del suo esercito del Nord. E la cocaina ha preso il posto della marijuana, con esiti catastrofici.
Tijuana è alla frontiera con la California: specialmente la sera, nei locali, si sente parlare più inglese che spagnolo. Sono per lo più americani di San Diego, distante solo mezz’ora d’auto: turisti e uomini d’affari, famiglie intere che ci vanno a cenare con la metà dei dollari che spenderebbero nel ristorante sotto casa. È una città cosmopolita, dalla vita intensa, la seconda del Messico per abitanti (oltre due milioni), tra le prime per reddito pro-capite in un Paese tra i più industrializzati del continente. Non è il deserto di Sonora, sebbene – a leggere i giornali – si riceva l’impressione che vi si nascondano serpenti ancora più velenosi.
Dire che le istituzioni vi fanno visibilmente fatica a esercitare il monopolio della forza in difesa dei diritti di tutti i cittadini è un eufemismo che vale per buona parte del Paese. Anche quando riescono a evitare dirette collusioni con gli interessi forti, non rinunciano facilmente alla discrezionalità, e se devono mostrare i denti lo fanno con i più deboli. Né mancano episodi d’innegabile corruzione e reciproci favori di pezzi dell’amministrazione pubblica, dalla giustizia ai corpi armati, polizia ed esercito, con la grande delinquenza organizzata. Pur se negli ultimi tre anni contrastata – come mai negli ultimi decenni –, dall’interventismo dell’attuale presidente López Obrador, la sostanza delle cose non cambia.
I giornalisti sono le vittime più frequenti, quasi predestinate dal loro mestiere, in un Messico che digerisce cento omicidi al giorno: sei giornalisti assassinati solo nello scorso mese di gennaio, uomini e donne; 171 dall’anno duemila a oggi. Un macabro rosario. Migliaia le denunce dei minacciati, aggrediti, sequestrati; 515 quelli al momento assistiti (in parte con scorta armata) dal “Sistema di protezione per i difensori dei diritti umani e dei giornalisti”: 155 donne e 360 uomini. Un inesauribile, sanguinoso stillicidio, che organismi delle Nazioni Unite e di categoria, di vari Paesi, denunciano come una strage senza comparazioni in tutto l’Occidente, a sua volta non proprio sereno.
Il narcotraffico costituisce lo sfondo oscuro, ma tutt’altro che invisibile, del grande crimine che soffoca il Messico e lo scarnifica giorno dopo giorno: le decine di tonnellate di cocaina e altre droghe più o menopesanti, che dai Caraibi vengono vendute ogni anno soprattutto negli Stati Uniti, e in misura enorme ancorché minore in Europa, fruttano un valore aggiunto incomparabile, il quale a sua volta genera fortune finanziarie immense. Grazie a queste, diversi “cartelli” possono sostenere un apparato militare capace di blindare i loro punti nevralgici, controllare vasti territori, garantire ulteriori lucrose attività delittuose, e darsi a una corruzione senza fine, che fa marcire spezzoni sempre più cospicui della società e dello Stato.
Su questo sfondo, prospera inoltre, e in taluni momenti si confonde con i narcos, una malavita più antica e nascosta, a sua volta non meno estesa, anzi articolatissima: quella dei “colletti bianchi”. Da sempre, questa incombe e specula sugli appalti pubblici, prosperando con tangenti in perenne lievitazione. Heber López – 39 anni, una moglie e due figlie –, ammazzato in casa pochi giorni fa, era stato ammonito, dai guardaspalle del sindaco di un paese limitrofo, di smetterla di scrivere del “corridoio interoceanico” dell’istmo di Tehuantepec: un affare miliardario a cui sono interessate varie e grandi imprese di costruzione.
A Lourdes Maldonado – un’esperta e indomita cronista di Tijuana – hanno sparato in testa, mentre a bordo della propria auto tornava dal funerale di un collega assassinato due giorni prima, il fotoreporter Margarito Martínez. Ne aveva denunciato con veemenza l’omicidio a tradimento, lasciando trapelare qualche suo sospetto sui mandanti. Ma era anche in causa per un’aspra vertenza di lavoro con l’ex governatore dello Stato, la Bassa California appunto, Jaime Bonilla, proprietario e direttore di un’emittente radiotelevisiva locale.
L’emozione suscitata da questi due ultimi delitti ha spinto il capo dello Stato federale a intervenire personalmente e pubblicamente. Identificati dalle telecamere fisse, due sospetti, entrambi risultati pregiudicati, sono stati arrestati.
Le associazioni dei giornalisti, quelle di difesa dei diritti umani – non da oggi, non soltanto in Messico – chiedono di più: chiedono che lo Stato non si limiti ad acciuffare qualche killer. Vogliono che indaghi sui mandanti. Ed è qui che lo Stato appare zoppicante, quando non connivente.
Diventa così più comprensibile perché una categoria di alta professionalità (il 67% ha una formazione universitaria completa o parziale), indebolita dal precariato (sono meno della metà i giornalisti regolarmente contrattualizzati) paghi con le proprie vite le assenze, negligenze, sordità e sordidezze dello Stato. Quella dei giornalisti in Messico (e del resto altrove) è una supplenza di dignità umana e civiltà giuridica.
Questo tema già affiorava davanti alle fumanti pizze di “Teresita”, in un dibattito più ampio imposto, a livello nazionale, da protagonisti famosi della cultura contemporanea – Carlos Fuentes, Elena Poniatowska, Álvaro Mutis, Carlos Monsiváis – dopo il massacro degli studenti a Plaza de las Tres Culturas di Tlatelolco, nell’autunno del 1968. Una strage di Stato, che rinnovò la violenza estrema come una latenza costante della storia nazionale, e l’impunità come sua immediata subcultura. Una violenza che, nell’assenza di sanzioni morali e penali, trasmette alla pubblica opinione la quasi irrilevanza ufficiale del crimine di lesa umanità, rendendo concepibili le sue repliche periodiche. L’immaginario messicano ne è profondamente intriso in tutti gli strati sociali.
È perciò logica la sua interazione con la politica economica che – semplificando per brevità – ne è la materializzazione sociale. Qui l’aspetto estremo diventa quello della copertura forzata dei deficit di bilancio nei periodi di crisi. Quando l’esaurimento di un ciclo, per il concorso di circostanze avverse, diventa traumatico, l’aumento del prezzo dei servizi, il taglio dei redditi fissi (dei salari e delle pensioni) e degli investimenti, con la conseguente contrazione dei posti di lavoro, inanella a catena tutti gli effetti della recessione. Attraverso diversi passaggi, l’estremo dell’alternativa opposta conduce alla stessa sostanziale e drammatica conclusione, attraverso la via dell’inflazione incontrollata. La Repubblica cambia così i suoi equilibri socioeconomici interni.
È andata proprio in questo modo, negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Per rimediare alla grave crisi, i presidenti Miguel de la Madrid, e il successore Carlos Salinas de Gortari (entrambi di quel Partito rivoluzionario istituzionale che, per appropriarsi della retorica degli Zapata e dei Villa, ha trasferito nell’ossimoro della sua stessa autodenominazione tutta l’irrisolta ambiguità di quel controverso processo storico), concepirono e realizzarono un radicale piano di ridimensionamento dello Stato. Battezzato solennemente Renovación moral de la sociedad y plan global de desarrollo, il programma, di dichiarato stampo neoliberista, si è risolto in un’opaca operazione non di liberalizzazione, bensì di privatizzazioni ad personam e di privilegi fiscali.
Non è la radice di tutti gli odierni mali del Paese, ma ancor meno la loro soluzione. A uno Stato ipertrofico ha fatto seguito un mercato carente di regole, mantenendo le rispettive rendite occulte interne, che minano trasparenza ed efficienza di entrambi. E – a completare il quadro –, in un’intervista rimasta agli annali non esclusivamente nazionali, l’ex presidente de la Madrid confessò al “New York Times” che, per favorire l’elezione del suo successore, il Partito aveva organizzato un bell’imbroglio elettorale. A cui, sia pure con il senno di poi, va aggiunto che il “piano globale di sviluppo” ha sviluppato più che mai l’emigrazione e il narcotraffico, con relative conseguenze.
Tutto infine è precipitato nei sei anni del presidente Enrique Peña Nieto, anch’egli dell’onnipresente e onnivoro Partito rivoluzionario istituzionale. E la situazione attuale è stata ereditata da López Obrador che tenta, con alterni risultati, di contenerla e ridurne le metastasi, richiamandosi al nazionalismo popolare di Lázaro Cárdenas. Una delle glorie del Messico rivoluzionario: a quindici anni seguace e combattente con Emiliano Zapata e, in seguito, mentre in Europa scoppiava la seconda guerra mondiale, “populista di sinistra”, generale e capo di Stato. Uno dei giornalisti assassinati ne stava riscrivendo la biografia. Se, come sostengono numerosi studiosi del fenomeno, il multiforme populismo è un frutto delle società frantumate dalla stagnazione economica e in tumulto, l’America latina dello sviluppo incompiuto gli offre sconfinato e fertile terreno, e tuttavia non unico. I giornalisti, prima dei sociologi e degli storici, lo raccontano a rischio della vita.
Tratto dal blog di Livio Zanotti