Affinché un fenomeno abbia le caratteristiche di una “formula politica” (utilizzando la tecnica verbale degli “ismi”, quindi, ma senza banalizzarla oltremisura), occorre che presenti qualche tratto di originalità. Se si parla di “berlusconismo”, poniamo, è perché il passaggio diretto di un’azienda dei mass media nell’agone politico era qualcosa che non si era mai visto prima, pur essendo senza dubbio in germe, per via della crescente spettacolarizzazione, nel sistema della democrazia liberale, mostrandone peraltro tutti i limiti. Che consistono in una marcata commistione di sfere le quali, in astratto, sarebbero distinte: cosicché il potere dei media, con la capacità d’influenza di cui dispone, può scavalcare la soglia dalla politica propriamente detta e occuparne l’ambito, senza troppi problemi, in assenza di leggi specifiche.
Nulla di simile nel caso di Renzi e dei suoi. L’inchiesta intorno alla Fondazione Open sta palesando per via giudiziaria ciò che, da un punto di vista per così dire sociologico, è noto da tempo. Un gruppo di affari e di potere inizialmente locale, grazie ai mezzi materiali raccolti con una specie di colletta, si proietta sulla scena politica nazionale facendo il grande salto. Il suo capo assurge infatti, in poco tempo, alla carica di presidente del Consiglio. Ora, nell’Italia del notabilato liberale del passato postrisorgimentale, come pure nelle clientele democristiane della storia più recente, c’era sempre, o quasi sempre, un politico che si costruiva anzitutto un “feudo” per lanciare da là la propria scalata nazionale. Si pensi, per fare un esempio, al potere napoletano dei Gava, e del capostipite Silvio, che, nonostante fosse di origine veneta, aveva mosso i primi passi da Castellammare di Stabia.
Non cambia molto se si comincia in un ambiente democristiano di Rignano sull’Arno, per diventare presidente della Provincia, sindaco di Firenze, eccetera. Soltanto, se ci fosse stata ancora la vecchia Balena bianca, Renzi avrebbe avuto vita più difficile di quella che ha avuto: non si sarebbe trovato a misurarsi tutt’al più con Lapo Pistelli (di cui, prima di metterlo in un angolo, fu il portaborse), ma con una fitta rete di cordate tra le quali avrebbe dovuto districarsi.
La differenza è data dai partiti entro cui è avvenuta la sua non irresistibile affermazione: la ex Margherita – piccolo aggregato di correnti, il cui “nocciolo duro” era dato da un certo numero di esponenti della ex Dc –, e poi il Pd, diviso al suo interno, nel periodo in cui Renzi spiccava il volo con la candidatura a sindaco di Firenze, dalla rivalità tra Veltroni e D’Alema, che si rifletteva anche sul piano locale. Il suo successo iniziale fu propiziato dalle derive del Pd – e da un meccanismo particolarmente barocco con cui furono organizzate, per le elezioni comunali fiorentine del 2009, quelle primarie che da “terzo incomodo” lo videro vincitore.
Il resto della vicenda è storia nota: grazie al rito delle primarie, Renzi con la sua consorteria dà una rapida scalata alla segreteria del Pd, diventando poi presidente del Consiglio anche in virtù dell’appoggio di Giorgio Napolitano, eletto capo dello Stato per una seconda volta, desideroso di realizzare un’ampia riforma costituzionale, a cui in effetti Renzi mette mano, sebbene alla fine il referendum confermativo fallisca, e lo stesso Renzi (dopo avere addirittura dichiarato che si sarebbe ritirato dalla politica se il suo disegno non fosse andato in porto) debba almeno dimettersi dalla carica di presidente del Consiglio. Non finisce qui: di fatto facilitatore, per non avere voluto da segretario del Pd un accordo con i 5 Stelle, del governo giallo-verde con Salvini al ministero dell’Interno, Renzi successivamente perde anche la segreteria e – dopo una giravolta con cui spinge per dare vita al governo Conte 2 – abbandona il partito con una scissione nei gruppi parlamentari. Un capolavoro di trasformismo, che ha trovato il suo punto di approdo (finora) nella mossa che un anno fa ha buttato giù il Conte 2, arrivando così all’attuale governo Draghi di “larghe intese”.
Di che cosa è fatto allora Renzi? Di una vecchissima “sostanza” della politica italiana, che ha i suoi maestri ancora viventi nei Mastella e nei Casini (quest’ultimo, eletto senatore nelle liste del Pd renziano, e da Renzi candidato alla presidenza della Repubblica). Sono detti “centristi” per convenzione nobilitante, essendo in realtà nient’altro che la “palude” dei parlamenti.
Molto diverso il caso della Democrazia cristiana d’antan. Questo era un partito veramente “di centro”, con un suo complicato sistema di correnti, che andavano ora un po’ più a destra, ora un po’ più a sinistra. Era un partito, nel bene o nel male, espressione di una larga parte della società italiana. L’interesse prevalente dello pseudo-centrismo attuale è invece solo la rielezione, che si preannuncia piuttosto difficoltosa se si pensa al cospicuo taglio dei parlamentari realizzato attraverso un referendum, di alcuni maggiorenti, e tra questi Renzi, in grave affanno nei sondaggi.
Il fatto che una (possibile) nuova legge elettorale proporzionale (per molti versi auspicabile, come sostiene Antonio Floridia) possa dare qualche fiato a questa piccola “palude” non deve però preoccupare: un po’ perché quest’area avrebbe in ogni caso, anche con il meccanismo elettorale attuale, la capacità di contrattare dei posti sicuri all’interno delle liste o dei collegi maggioritari; e un po’ perché il rischio è il suo carattere “determinante” in parlamento (come avviene in questa legislatura), non la sua semplice presenza. Uno sbarramento al quattro o cinque per cento sarebbe sufficiente a ridurre le pretese di quanti puntano, in primis, a una pura e semplice sopravvivenza.
C’è infine un aspetto della cosa per nulla secondario: questo piccolo mondo politico guarda a Draghi come al salvatore. E in effetti, anche grazie al consenso di cui gode, è oggi Draghi il “centrista” vero e proprio. Dipende molto, oltre che ovviamente dai risultati elettorali, dal Pd – dalla capacità della segreteria Letta di svincolarsi, a un certo punto, dal proprio “draghismo di governo” con una proposta politica autonoma – se il centrismo nella prossima legislatura, con relativa “palude”, avrà la meglio mediante un rinnovato governo di “larghe intese”, oppure no.