Le difficoltà nell’enucleare una chiara volontà del parlamento, riscontrate in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica e il mandato bis a Sergio Mattarella, hanno rilanciato l’ipotesi di un’elezione diretta dell’inquilino del Quirinale. Il ministro leghista Giancarlo Giorgetti, il 2 novembre 2021, suggerì perfino di eleggere il 3 febbraio successivo Mario Draghi capo dello Stato, assegnandogli de facto anche le funzioni di presidente del Consiglio tramite un prestanome da scegliere tra qualche ministro “tecnico”. Matteo Renzi è del parere di passare quanto prima all’elezione diretta del presidente della Repubblica, e ha affermato in un’intervista al “Corriere della sera”: “Mi sembra una necessità rafforzata dallo show triste di questi giorni: che poi sia presidenzialismo all’americana o semipresidenzialismo alla francese, vedremo. Ma questo tema sarà oggetto della legislatura 2023-2028”.
L’evoluzione, la flessibilità e l’ampiezza dei poteri della presidenza della Repubblica italiana sono note ai costituzionalisti (spesso si utilizza, al riguardo, l’immagine della fisarmonica). Col passare degli anni il Quirinale è diventato sempre più decisionista travalicando, a volte, se non la lettera almeno lo spirito della nostra Costituzione. Basti ricordare il ruolo controverso di Giorgio Napolitano collegato alla crisi dello spread del 2011 e alle dimissioni del governo Berlusconi. Lo spread passò da 80 punti base a quasi 600, in seguito alla vendita massiccia di titoli di Stato italiani da parte della Deutsche Bank, dopo il rifiuto del governo italiano di adeguarsi alle condizioni poste dalla lettera riservata del governatore uscente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, e di quello in pectore, Mario Draghi. L’esecutivo non attuò alla lettera tutte le prescrizioni, per esempio accantonando gli interventi sulle pensioni d’anzianità, scegliendo un percorso più agevole per il pareggio nel 2013, lasciando decidere alle parti sociali sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La situazione finanziaria divenne critica, e Silvio Berlusconi dovette dimettersi. Napolitano, in quella occasione, non scelse la strada delle elezioni, ma nominò prima senatore a vita e subito dopo premier, Mario Monti, un ex commissario dell’Unione europea.
La “democrazia dei signori”
D’altronde, come ha rilevato Luciano Canfora nel suo pamphlet La democrazia dei signori: “Da oltre trent’anni l’Italia vede attuarsi periodicamente soluzioni ‘irregolari’ delle crisi politiche. Ciampi, Monti, Draghi. Da tempo i presidenti della Repubblica si regolano come se fosse in vigore da noi la Costituzione della Quinta Repubblica francese, o forse pensano che sia ritornato lo Statuto albertino: convocano ‘qualcuno’ che metta le cose a posto”.
Anche il “Mattarella primo” ha agito in diverse occasioni in tal senso. Ricordiamo il rifiuto di avallare la nomina di Paolo Savona all’economia e la scelta di Tria al ministero dell’Economia, nonché, più recentemente, l’incarico a Draghi con la scusa che il Covid-19 impediva agli italiani di andare a votare; mentre i portoghesi, gli spagnoli, gli israeliani e gli statunitensi erano chiamati nello stesso periodo alle urne. Il governo Mattarella-Draghi è la garanzia richiesta per l’attuazione del Recovery Fund a partire dalla disciplina budgetaria, che verrà ripristinata al più presto, e per l’operatività delle “riforme” che devono adeguare la società alle esigenze del capitale finanziario. L’esecutivo si è anche vieppiù attribuito poteri legislativi, espropriando il parlamento di quasi ogni ruolo residuo. Non inganniamoci, lo scopo finale è la piena attuazione del programma ordoliberista e l’attacco a quel che rimane dello Stato sociale.
I poteri che contano, a livello europeo, hanno capito che l’istituzione su cui fare leva per cambiare e/o controllare il governo italiano è la presidenza della Repubblica, che con un’interpretazione estensiva dei suoi poteri può operare in tale direzione. Senonché l’ipotesi del “governo del presidente” contraddice il nostro ordinamento costituzionale. La nostra “costituzione materiale” è stata così man mano modificata, estendendo i poteri e il ruolo del capo dello Stato. Tanto che Paolo Mieli, in un suo editoriale del 21 ottobre 2021 sul “Corriere della sera”, si chiedeva in maniera non troppo assurda: “E se decidessimo di non votare mai più?”. Ovviamente per tenerci Draghi for ever.
In filigrana, dietro questa deriva presidenzialista, si scorgono le forze dominanti nell’Unione europea che fanno leva sulla presidenza della Repubblica per condizionare e cambiare i nostri governi. A ciò è funzionale il qualunquismo anti-partiti, l’esaltazione del ruolo dei tecnici e il riemergere periodico dell’unità nazionale come obbligo etico di fronte alle continue emergenze.
Nel frattempo l’astensionismo tra i ceti popolari e i giovani raggiunge percentuali superiori al 60%. Delusi dalla sinistra, che partecipa alle maggioranze patriottiche, questi settori sociali si autoescludono dallo spazio politico. Si assiste a una regressione ai primi del Novecento, a un suffragio ristretto, a un ritorno, per l’appunto, alla “democrazia dei signori”.
La proposta di una repubblica presidenziale è da sempre un mantra della destra. Tanto che in parlamento sono state depositate ben cinque proposte di legge per l’elezione diretta del presidente, alle quali però si aggiunge anche quella del costituzionalista Stefano Ceccanti, deputato del Pd. Già nel 1998 fu lo stesso Cesare Salvi dei Ds, relatore della bicamerale sulla forma di governo, a proporre l’elezione diretta del capo dello Stato. In pratica, si parla di modifica della Costituzione in senso semipresidenziale dagli anni post-Tangentopoli, in parallelo con la transizione al sistema elettorale maggioritario. Comunque il 28 febbraio prossimo arriverà in aula, alla Camera, la proposta sul presidenzialismo di cui è prima firmataria Giorgia Meloni (Atto Camera n. 716). Vedremo che seguito avrà.
In Francia vige quel che viene definito “semipresidenzialismo”, ma il termine non deve fuorviare. Come ha affermato Massimo Cacciari in una intervista del 26 ottobre 2021, “la verità è che non esiste un semipresidenzialismo, esistono varie forme di presidenzialismo. Il semipresidenzialismo non definisce nulla tecnicamente, indica soltanto un Paese in cui le forze politiche hanno le idee confuse. O si fa una riforma costituzionale in senso presidenziale oppure si rimane nei pasticci”. Anche se una distinzione a ben vedere ci sarebbe: nella repubblica presidenziale il governo è nominato dal presidente e non dipende dal parlamento, mentre nella repubblica semipresidenziale esso è nominato dal presidente, ma deve ottenere la fiducia delle Camere. Cacciari aggiunge poi significativamente: “Il presidenzialismo è una soluzione tecnica che potrebbe andare benissimo sia alla destra e sia alla sinistra”. Ovviamente non sarebbe sufficiente solo l’elezione diretta a suffragio universale, bisognerebbe anche ampliare i poteri e le prerogative proprie del capo dello Stato.
Mentre nel nostro Paese si registra questo afflato, anche in settori della sinistra, verso il presidenzialismo, Oltralpe, dopo settant’anni dalla sua introduzione, si constatano gli effetti perversi dell’elezione diretta del presidente della Repubblica sulla vita democratica francese.
La Quinta Repubblica francese sotto accusa
L’elezione diretta del presidente in Francia, in realtà, viene introdotta solo nel 1962, quattro anni dopo l’arrivo al potere del generale De Gaulle e l’instaurazione della Quinta Repubblica, in seguito alla crisi provocata dalla guerra d’Algeria e dal pronunciamento dei militari guidati dai generali Raoul Salan e Jacques Massu. Viene così a completarsi il quadro di una sorta di monarchia repubblicana, che all’epoca François Mitterrand denunciò in un suo saggio al vetriolo, Il colpo di Stato permanente, salvo poi trovarvisi a suo agio una volta arrivato all’Eliseo. Dopo il referendum, indetto da Jacques Chirac nel 2000, il presidente viene eletto per cinque anni contro i sette precedentemente previsti.
Dopo circa settant’anni, i suoi difetti sono ben visibili e quasi tutti i partiti e le formazioni di sinistra reclamano il passaggio a una Sesta Repubblica di tipo parlamentare. Essi denunciano i numerosi effetti perversi per la democrazia della Costituzione attuale.
Un capo dello Stato iper-mediatizzato incarna ormai il potere politico nella sua globalità, un presidente tuttofare, onnipresente e in prima linea su tutte le problematiche. Concentrandosi all’Eliseo l’insieme della vita politica, la conquista della presidenza diventa l’ossessione della classe politica. La quasi generalizzazione delle primarie come modalità di designazione dei candidati ha completato la trasformazione del presidente della Repubblica in un uomo di parte. Il candidato eletto, alla fine, sarà il rappresentante di un partito politico,che l’avrà eletto prevalendo anche di poco sulle altre candidature. Il metodo elettorale (maggioritario uninominale a due turni) fa sì che, al secondo turno, l’elettore dia un voto “utile” oppure di “sbarramento”.
Così, per esempio, nel 2017 Emmanuel Macron, che ebbe solo il 24% dei voti al primo turno, raccolse il 66% al secondo turno contro Marine Le Pen. Il presidente fu dunque eletto con il voto del 43% degli aventi diritto, ma in pratica fu effettivamente scelto al primo turno da neanche un quarto dei francesi. La battaglia della presidenziale distrugge il confronto elettorale per il parlamento, che segue dopo un paio di mesi: elezione che nel 2017 conobbe una partecipazione tra il 49% (primo turno) e il 43% (secondo turno). Alle ultime amministrative, la partecipazione non ha superato un terzo degli aventi diritto. La campagna elettorale così personalizzata fa passare in seconda linea le reali questioni in gioco; si discute dell’immigrazione o della sicurezza piuttosto che del sistema sanitario, della disoccupazione, della questione abitativa o della crisi climatica.
Il dibattito, tra gli stessi candidati, è poi falsato dal fatto che il presidente-monarca uscente spesso si rifiuta di partecipare a dei confronti con gli altri candidati, e procede con dichiarazioni o conferenze stampa in solitaria. La personalizzazione della competizione elettorale porta a squalificare le istanze collettive come i partiti, a favore di leader più o meno carismatici contribuendo, anche per questa via, alla crisi della partecipazione delle cittadine e dei cittadini alla vita politica. I partiti stessi, ormai, si organizzano quasi unicamente in funzione di questa scadenza, e le loro strategie per le elezioni intermedie sono subordinate a quella per la presidenziale, a detrimento della selezione di un personale politico largo, adeguato e con radici nei territori.
Questa estrema personalizzazione dell’autorità suscita un ciclico disincanto democratico. Il presidente della Repubblica, ritenuto onnipotente e responsabile di tutto, non dispone ovviamente di nessuna bacchetta magica per dare delle risposte ai problemi dei francesi. Diventa facilmente il capro espiatorio della rabbia dei cittadini, regolarmente delusi, che cresce elezione dopo elezione. L’astensionismo si amplifica favorendo le destre moderate ed estreme. All’epoca dei social, della democrazia partecipativa, dell’interattività e dello scambio orizzontale delle informazioni e delle opinioni, questa mobilitazione esasperatamente verticale è nevrotica, e prepara il terreno per l’avvento di un uomo della provvidenza e di un regime autoritario.
L’elezione presidenziale si è così affermata in Francia come “la madre di tutte le battaglie”, anche se rassomiglia sempre più al funerale della democrazia.