Ci mancavano solo i bitcoin. Non bastavano i tanti guai che el pulgarcido d’America, “il pollicino d’America” – come viene chiamato El Salvador, il più piccolo Paese latinoamericano – ha dovuto passare nel corso degli ultimi decenni. Dittature, guerre, povertà, violenze di ogni tipo. Da cinque mesi a questa parte, è arrivata anche la moneta virtuale a mettere in difficoltà la fragile economia della patria di Oscar Romero. Il bitcoin, che vale circa 38.000 euro, ovviamente utilizzabile anche in percentuali minime, è divenuta infatti, il 7 settembre scorso, caso unico nel mondo, la moneta corrente del Salvador potenzialmente utilizzabile da tutti insieme al dollaro, quest’ultimo subentrato vent’anni fa al colon, in precedenza valuta nazionale.
La brillante idea è stata dell’esuberante e originale presidente Nayib Bukele. Quarantenne di origine palestinese– uomo d’affari, abbigliamento casual, già sindaco di Nuevo Cuscatlan e di San Salvador con i colori del partito di sinistra Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale (Fmln) – è stato eletto capo dello Stato nel 2019, con il sostegno di Gana (Grande alleanza per l’unità nazionale), organizzazione di centro nata da una scissione del partito di estrema destra Arena (Alleanza repubblicana nazionalista).
Fin dall’inizio, la decisione di utilizzare le criptovalute non aveva convinto i cittadini, costretti a misurarsi con una novità assoluta in ambito monetario, difficile da capire e da gestire nella vita di tutti i giorni. A cominciare dalla necessità di scaricare sullo smartphone Chivo, il wallet ufficiale fornito dal governo: strumento che non tutti sono in grado di maneggiare in una popolazione tecnologicamente poco alfabetizzata.
All’inizio erano arrivati i commenti positivi della comunità crypto che aveva previsto un maggiore accesso dei salvadoregni ai servizi bancari e finanziari. Ma nel corso di questi mesi le cose sono andate diversamente. In primo luogo, la decisione di affiancare al dollaro una valuta virtuale rischia di vanificare i vantaggi derivati dall’introduzione della moneta a stelle e strisce. Quella pur discutibile decisione, che legava ancor più l’economia salvadoregna a quella dello Zio Sam, aveva però garantito una stabilità importante per il Paese. Su consiglio dell’economista Steve Hanke, Manuel Hinds, allora ministro delle Finanze del governo di destra ed ex esponente della Banca mondiale, prese la stessa decisione dell’Ecuador nel 2000,quando il Paese andino aveva sostituito la moneta nazionale – sucre appunto – con il dollaro per combattere l’inflazione.
Nei due decenni successivi El Salvador è riuscito a contenere l’inflazione media al 2,03%, a stabilizzare i tassi di interesse al 7%, con un andamento dell’economia migliore di quello degli altri Paesi dell’area. Malgrado questo quadro stabile, ecco arrivare la decisione di Bukele, che cambia completamente le carte in tavola richiedendo a tutti i commercianti e alle banche di accettare bitcoin per il pagamento di consumatori o aziende che dir si voglia.
Diverse le ragioni che hanno indotto il presidente a prendere una decisione così azzardata. La convinzione che l’adozione dei bitcoin avrebbe permesso l’accesso ai servizi finanziari di quel 70% di salvadoregni che non hanno conti in banca. E poi l’abbassamento delle commissioni che gravano sulle rimesse economiche di chi vive all’estero, le quali rappresentano un quarto del Pil del Paese latinoamericano. Secondo Bukele, distribuire bitcoin avrebbe permesso di mettere più soldi nelle tasche della popolazione per il drastico abbassamento delle tasse.
Ma in realtà le commissioni relative al trasferimento di denaro in Salvador sono tra le più basse del mondo, solo il 2,8%. Dunque Bukele ha mentito. E non basta. Aziende e consumatori non vogliono il bitcoin. A poco è servita l’idea di attirare gli utenti offrendo trenta dollari in bitcoin a chi si fosse iscritto all’app del governo. Chi li ha ottenuti ha preferito scambiarli con i dollari cancellandola, e facendo capire di non condividere questa decisione, ben lontana dalle abitudini dei salvadoregni, ma potremmo dire tranquillamente della popolazione mondiale.
Una distanza confermata dalla Central American University, secondo la quale nove salvadoregni su dieci non sapevano cosa fosse il bitcoin, e otto su dieci non si fidavano di esso. Inoltre la gente non poteva scambiare i propri bitcoin con i contanti perché l’app spesso non riusciva a connettersi ai pochi bancomat presenti sul territorio.
Ad aumentare le difficoltà è arrivato, poi, il monito del Fondo monetario internazionale che ha fortemente criticato questa scelta, chiedendo al governo salvadoregno di tornare sui suoi passi. Decisione che sarebbe obbligata visto che il Paese, fortemente indebitato, ha bisogno di un prestito di un miliardo di dollari proprio dal Fmi o, in alternativa, dalla Banca mondiale, che sarebbe però condizionato all’abbandono del bitcoin.
Non contento, lo scorso novembre Bukele aveva annunciato la costruzione di una “Bitcoin City” nel golfo di Fonseca, il cui fine era addirittura di speculare sulla criptovaluta. Con il conseguente crollo del valore delle obbligazioni sovrane e aumento del debito sovrano, ora tra i più alti al mondo. Non mancano poi i risvolti di carattere penale. Com’è noto l’uso delle criptovalute, a causa delle difficoltà di controllo da parte delle autorità, facilita il riciclaggio di denaro sporco. Un reato chiamato “crypto-crime” che aiuta le attività di organizzazioni criminali di ogni genere, quali le transazioni legate alla criminalità comune e di stampo mafioso, fino ai gruppi terroristici. Una sorta di tecnologizzazione della finanza illegale.
Possiamo dunque immaginare come, in un Paese in cui mafia e corruzione la fanno da padrone, l’uso della moneta virtuale sia stato accolto da festeggiamenti e strette di mano, queste non tanto virtuali e molto diffuse, con la politica. La quale, da tempo, è costretta, o vuole, scendere a patti con chi provoca ogni giorno decine di vittime. Non poteva mancare, in questo contesto, un elemento di geopolitica. El Salvador ha recentemente intensificato le relazioni con la Cina, divenuta per molti Paesi del continente un’alternativa alla secolare ingerenza statunitense. Ma Washington non ha ovviamente gradito, e immediatamente ha comminato sanzioni – attività preferita dalla Casa Bianca contro chiunque leda i propri interessi – a svantaggio di alcuni funzionari locali salvadoregni.
L’uso della criptovaluta è dunque per Bukele un tentativo di annullare l’effetto delle sanzioni e di emanciparsi dallo strapotere statunitense, che di fatto considera El Salvador una propria colonia. Ma le modalità utilizzate dal “tecnocaudillo” rischiano di trascinarlo in un baratro, e con lui un Paese che non riesce a uscire da un vero e proprio incubo tutt’altro che virtuale.