Un déjà-vu. Matteo Renzi va alla guerra contro i magistrati, e in un attimo sembra di tornare indietro di qualche anno. La procura di Firenze, infatti, ha chiesto l’apertura di un processo contro il senatore di Italia viva e altri dieci indagati per le presunte irregolarità nei finanziamenti a Open, e il senatore ha subito mostrato i muscoli, ingaggiando un duello contro un potere dello Stato. Sappiamo, dall’autunno del 2019, dell’inchiesta della procura di Firenze sulla Fondazione Open – iscritta come fascicolo 3.745/19. Tra settembre e novembre di tre anni fa, i militari della Guardia di finanza effettuarono diverse perquisizioni nei confronti di persone che avevano donato consistenti risorse alla Fondazione di Renzi, presieduta dall’amico avvocato Alberto Bianchi. Vennero sequestrati anche i bilanci della Fondazione e la lista dei finanziatori. Tutto ciò avvenne in diverse città: Milano, Torino, Roma, Napoli, Parma, Bari, La Spezia, Pistoia, Alessandria e Modena.
Due giorni fa abbiamo appreso che la procura di Firenze chiede un processo (il 4 aprile si terrà l’udienza preliminare). Il senatore di Rignano se lo aspettava e aveva già programmato la mossa da tempo, stando a quello che sostiene il “Corriere della sera”, che ha raccontato nel dettaglio la sua strategia di difesa, sostanzialmente attaccare il nemico, possibilmente a sorpresa. Cosa che gli è riuscita bene: un minuto dopo la diffusione della notizia dell’azione giudiziaria, è partita la controffensiva con una pesante nota alla stampa: “Finalmente inizia il processo nelle aule e non solo sui media”, ha detto, e poi, tanto per non spettacolarizzare la circostanza, è andato giù duro contro i pm, con attacchi frontali a quelli applicati sull’indagine Open. La richiesta, spiega la nota, “è stata firmata dal procuratore Creazzo, sanzionato per molestie sessuali dal Csm; dal procuratore aggiunto Turco, che volle l’arresto dei genitori di Renzi, poi annullato dal Tribunale della libertà, e dal procuratore Nastasi, accusato da un ufficiale dell’Arma dei carabinieri di aver inquinato la scena criminis nell’ambito della morte del dirigente Mps David Rossi. Questi sono gli accusatori”.
A cosa si riferiva Renzi? Alla perdita di anzianità di due mesi inflitta, nel dicembre scorso, dal Consiglio superiore della magistratura al procuratore Creazzo, accusato dalla collega palermitana Alessia Sinatra di molestie sessuali nel 2015 in un hotel romano, durante un’iniziativa della loro corrente, Unicost; all’arresto disposto dal gip, poi annullato per il venir meno delle esigenze cautelari, dei genitori di Renzi tutt’oggi sotto inchiesta; alle accuse contro Nastasi da parte del colonnello Pasquale Aglieco davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del manager di Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, giunte a nove anni di distanza dai fatti, smentite proprio ieri dallo stesso Nastasi davanti alla stessa sede parlamentare: “Entrai perché mi dissero che era già stato fatto il filmato dalla scientifica”, ha detto. La campagna renziana contro i pm si è conclusa, almeno in quella giornata, con un colpo di scena: una denuncia penale alla procura di Genova, competente sui colleghi fiorentini, contro Creazzo, Turco, Nastasi accusati di aver violato l’articolo 68 della Costituzione che vieta di perquisire i parlamentari: ma all’epoca dei fatti contestati Renzi non era ancora stato eletto al Senato.
I fatti
I magistrati fiorentini ipotizzano i reati di traffico di influenze illecite, riciclaggio, autoriciclaggio, appropriazione indebita, false comunicazioni sociali, oltre a quello di finanziamento illecito ai partiti. In sostanza, secondo l’accusa, la Fondazione Open sarebbe stata la cassaforte per agevolare la scalata all’interno del Pd dell’allora sindaco di Firenze, anche organizzando le “favolose” convention della Leopolda. Renzi, dicono i magistrati, sarebbe stato il vero capo di Open, che avrebbe anche finanziato la “Bestia viola”, la macchina di propaganda chiamata così per analogia con la Bestia messa su da Matteo Salvini al Viminale: un particolare importante perché dimostrerebbe che Open e il partito di Renzi coincidevano, circostanza che imporrebbe a Open il rispetto degli stessi obblighi di trasparenza imposti ai partiti, come prevede la legge anti-corruzione nota come “Spazzacorrotti”, quella che abolisce la prescrizione dopo il primo grado di giudizio per intenderci: perché – si chiedono i magistrati – Open venne chiusa nel gennaio 2019, con tanta fretta, proprio prima dell’entrata in vigore della legge?
Nata con il nome di “Big bang” nel 2012, liquidata nel 2018, Open avrebbe raccolto un totale di circa 7,2 milioni di euro: 670.000 nel 2012, 700.000 nel 2013, 1,1 milioni nel 2014, 450.000 nel 2015, 2,1 milioni nel 2016, 1 milione nel 2017 e 1,1 milioni nel 2018. La parte contestata dei soldi ammonta a più di tre milioni e mezzo di euro, destinati, ipotizzano i pm, a Renzi e ai suoi amici, Luca Lotti e Maria Elena Boschi, per le loro attività politiche, svolte aggirando completamente – dice l’accusa – la legge sul finanziamento ai partiti che consente donazioni private, le cosiddette “erogazioni liberali” non superiori ai centomila euro. Agli atti dell’inchiesta ci sono anche le spese sostenute in quei quattro anni da Renzi e dei suoi collaboratori: cellulari, biglietti del treno, taxi e ristoranti, hotel: quasi 549mila euro in beni e servizi. Molto inferiori le cifre usate da Open per Lotti e Boschi: quasi 27mila euro per il primo, 5.900 per la seconda. Alcuni contributi di Open sarebbero stati utilizzati anche per finanziare la campagna referendaria.
Per quanto riguarda l’imprenditore Marco Carrai – anche lui molto amico di Renzi e console di Israele per la Toscana, per il quale Renzi aveva pensato a una struttura da affidargli per la gestione della nostra cyber-sicurezza, e nel Cda di Open –, avrebbe usato le sue società lussemburghesi per portare all’estero i soldi di alcuni finanziatori della Fondazione. Quanto all’avvocato Alberto Bianchi – considerato uno degli uomini più vicini all’ex premier, uno dei membri della cerchia del cosiddetto “giglio magico” – viene indicato come il collettore dei finanziamenti che sarebbero stati versati da alcune società per i presunti favori ottenuti grazie alla ipotizzata intermediazione politica di Lotti – emendamenti e norme, tanto che la Camera dei deputati è tra le parti lese. Avvisi di chiusura indagine anche a quattro società: la Toto Costruzioni – il gruppo abruzzese concessionario autostradale, in cambio di favori, avrebbe versato circa ottocentomila euro all’avvocato Bianchi –, e vicende analoghe per le altre società: la Immobil Green, la British American Tobacco Italia spa e la Irbm spa (già Irbm Science park spa).
Questo è il quadro che emerge dall’inchiesta, vedremo se reggerà al vaglio del tribunale. Di certo il procedimento si terrà in un clima di estremo nervosismo, se Renzi non disattenderà le promesse di sfidare fino all’ultimo respiro la magistratura che lo accusa. Ieri è andato giù pesante con l’Associazione nazionale magistrati, accusata di non aver fatto nulla, mentre la sua vita veniva “scardinata” dai pm, e la sua famiglia trattata “come una associazione di gangster”: il duello continua – Renzi versus i pubblici ministeri –, creando un contesto che fa perdere di vista il resto. La personalizzazione non ha risparmiato neanche il paragone con le vicende giudiziarie che hanno investito altri leader, come Grillo e Conte, finiti nei guai per ben altre vicende o cifre – “perché a loro non hanno sequestrato i cellulari?”, come se le inchieste fossero tutte uguali.
Il senatore di Italia viva gode di buona stampa ma non tutta è ai suoi piedi. Qualche giorno fa il giornale della borghesia italiana ha sparato in prima pagina una notizia senza rilevanza penale, ma dal grande significato politico ed etico, e cioè la cifra dell’incasso ricevuto da Matteo Renzi per “prestazioni fornite in qualità di consulente all’Arabia Saudita: un milione e centomila euro” resa nota dallo stesso interessato, che ha dovuto dare spiegazioni a Bankitalia per quella grossa somma (metà dei fondi, 570mila euro, arrivano dalla Royal Commission for Al Ula, l’ente che con il Regno saudita promuove lo sviluppo turistico del sito di Al Ula). Siamo sempre lì: non c’è quello “stantio odore di massoneria” avvertito dall’ex direttore del “Corriere”, Ferruccio De Bortoli, a proposito del famigerato Patto del Nazareno, ma tanti e tanti soldi attorno a un piccolo gruppo della classe politica italiana, che ha un discreto potere sull’interesse collettivo.