Darà di sicuro potere e prestigio, ma la carica di primo ministro in Perù è di certo lungi dal garantire la durata. Sono infatti trenta coloro che hanno ricoperto tale incarico dall’inizio del 2000, mentre, negli ultimi due anni, il Paese ha accelerato, con un capo del governo durato in carica venti giorni, un altro appena quattro, e con l’ultimo, Héctor Valer, solo settantadue ore. Pedro Castillo ha giustificato decisioni spesso erratiche come un necessario apprendistato della sua carica di neopresidente; ma vedersi costretto a cambiare quattro volte il proprio governo in appena poco più di sei mesi è di certo un record anche in un Paese che vive una crisi istituzionale e politica di lunga data.
Stiamo ai fatti. Héctor Valer si è dimesso dopo che lo stesso Castillo aveva annunciato dei cambiamenti nel governo, poiché parecchi dei dieci partiti presenti nel congresso non avrebbero votato la fiducia al nuovo esecutivo. La causa dell’ennesimo scossone nella vita politica peruviana è stata la diffusione da parte della stampa della notizia secondo la quale Valer si era reso colpevole di maltrattamenti nei confronti della moglie, recentemente scomparsa, e della figlia nell’ottobre del 2016. Gli articoli pubblicati hanno fatto riferimento a una denuncia presentata dalla figlia in un posto di polizia, nella quale l’uomo politico veniva accusato di averla presa a “sberle, pugni, pedate e a tirate di capelli”.
Sessantadue anni, avvocato penalista, Héctor Valer era stato eletto, nelle ultime elezioni, con il partito di estrema destra Renovación popularche ha poi lasciato per approdare prima a una formazione di centro, e quindi a Perú democrático il cui obiettivo, assieme ad altre formazioni politiche, è la riscrittura della Costituzione in vigore, eredità dell’ex presidente Alberto Fujimori, condannato per gravi reati commessi durante il suo mandato. La scelta di Valer da parte di Castillo ha di certo sorpreso, vista la sua elezione al congresso come esponente di un partito di estrema destra. Tanto più che durante la campagna elettorale non aveva mancato di mettere in guardia contro il pericolo “comunista” rappresentato da Castillo e da Perú libre, la formazione del presidente.
Dapprima Valer ha cercato di accreditare la tesi che il tutto era una montatura della stampa. Poi, messo di fronte alla denuncia fatta presso un posto di polizia, ha negato di aver usato violenza e minacciato querele contro chi avrebbe macchiato il suo onore, accusando la destra di un complotto contro di lui, paladino della giustizia sociale in Perù. Nelle stesse ore, entrava in gioco la presidente del congresso María del Carmen Alva, appartenente all’opposizione, chiedendo che Valer facesse un passo indietro, mentre nella società civile montava la protesta delle organizzazioni femministe. Ma a dare il colpo di grazia a Héctor Valer, sono stati tre suoi ministri – tra cui quello degli esteri César Landa, diplomatico di carriera – che hanno chiesto che chi esercita cariche pubbliche sia libero da denunce.
Per ultimo, è arrivato l’annuncio del cambio da parte di Pedro Castillo, che ci ha messo del suo, evitando ogni accenno autocritico sulla scelta di Héctor Valer, accusando il parlamento di averlo spinto a nominare un quarto esecutivo senza prima ascoltare dall’ex primo ministro le linee programmatiche del governo.
Alla scelta di Héctor Valer, e al varo del suo terzo governo, Castillo era arrivato dopo che due esponenti di spicco del precedente gabinetto gli avevano presentato le dimissioni. Tutto era cominciato quando il ministro degli Interni, Avelino Guillén, si era visto costretto a lasciare per non avere incassato l’appoggio, da parte di Castillo, nel conflitto che lo aveva opposto al capo della polizia Javier Garrido. Nell’imperversare di un’offensiva, da parte del crimine organizzato, alla quale il governo aveva risposto decretando lo stato di emergenza nella capitale e nella regione di Callao, ministro e capo della polizia non avevano trovato l’accordo sulle nomine dei vertici delle forze dell’ordine, costringendo il primo a presentare le sue dimissioni “revocabili” al presidente, con l’intento di spingerlo a decidere in suo favore.
La risposta di Castillo era stata apparentemente salomonica, e aveva portato all’accettazione delle dimissioni del suo ministro insieme con la rimozione del capo della polizia. Di certo non si aspettava quanto poi è accaduto: la fine del governo sancita dal primo ministro, Mirtha Vásquez, che ha presentato le dimissioni sostenendo che la crisi era “l’espressione di un problema strutturale di corruzione in diverse istanze dello Stato”, e non qualcosa di congiunturale. Ormai convinta che la situazione non potesse offrire “la possibilità di procedere sulla strada di altri cambiamenti imprescindibili in altri ambiti”. Un’accusa gravissima, che aveva coinvolto lo stesso Castillo e le forze politiche che lo sostengono in un equilibrio precario a livello parlamentare. Questo sul piano della maggioranza.
Per quanto riguarda l’opposizione, Patricia Chirinos, terza vicepresidente del congresso, ha deciso di ripercorrere la strada dell’accusa costituzionale nei confronti del presidente, al fine di ottenere la sua destituzione attraverso un giudizio politico sulla base dell’articolo 117 della Carta fondamentale del Paese. Un percorso che aveva già tentato lo scorso novembre, senza tuttavia ottenere i 52 voti necessari per destituirlo. Una soluzione che presenta più di qualche difficoltà, visto che votare la “vacancia” significa automaticamente lo scioglimento del congresso e nuove elezioni legislative.
Sempre più indebolito e impossibilitato a governare, Pedro Castillo ha esordito dando vita a un governo con a capo Guido Bellido, costretto a dimettersi per gli scandali di corruzione che ne hanno minato l’immagine, e per il procedimento per apologia di terrorismo a causa dei suoi commenti su una ex militante di Sendero luminoso. Poi è passato dall’abbraccio con la formazione marxista Perú librea posizioni più moderate con Mirtha Vásquez e Pedro Francke, ministro dell’Economia. Una scelta fatta per la stabilità istituzionale e per tranquillizzare gli investitori internazionali. La fine del rapporto con Vásquez gli ha alienato l’appoggio della sinistra moderata, che fino a poco tempo fa lo sosteneva contro la destra golpista di Keiko Fujimori. E ha reso la sua possibilità di mediazione nella palude parlamentare ancora più ardua.
L’aver varato governi di tendenza politica diversa ha esposto il primo presidente “campesino” alle critiche, mentre vari ministri dei suoi governi cadevano travolti dagli scandali. Se risulta sempre più chiaro che ha vinto le scorse elezioni perché la sua avversaria era Keiko – essendo l’anti-fujimorismo molto sentito in Perù –, fin dall’inizio non è riuscito a palesare un’idea chiara di cosa vuole fare.
E veniamo a ieri, quando un nuovo gabinetto presieduto dall’anziano ex ministro della Giustizia, Aníbal Torres, ha giurato nelle mani di Castillo. Torres, autore della strategia con la quale il presidente ha risposto alle accuse di frode elettorale mosse da Keiko Fujimori, guiderà un gabinetto di diciannove ministri, in cui solo sei sono i nuovi arrivi, mentre gli altri sono conferme. Soltanto tre le donne, una in meno del governo lampo di Valer, e due in meno di quello di Mirtha Vásquez.
Castillo aveva promesso di aprire il governo a tutte le forze politiche. Nelle prossime ore sapremo se sarà riuscito a ottenere gli appoggi necessari, e a convincere il parlamento, consapevole che un altro errore non gli è permesso. Intanto ha già suscitato polemiche la designazione a ministro della Salute di Hernán Condori Machado, esponente di Perú libre, che, secondo una informazione ottenuta dal quotidiano “El Comercio”, sarebbe indagato dallo scorso giugno per presunti pagamenti irregolari durante il suo incarico di fiducia nei governi regionali di Junín di Vladimir Cerrón, leader della formazione di sinistra che non ha potuto candidarsi alle presidenziali per le condanne per corruzione.
Visti i chiari di luna, sembrano esserci tutte le premesse perché la telenovela peruviana possa continuare in quel gioco al massacro che ha triturato ministri e governi. In costante calo nell’apprezzamento dei peruviani, Pedro Castillo ha dalla sua il fatto che, a livello parlamentare, sembra non esserci all’orizzonte una maggioranza alternativa. Perché, se il presidente sta male, pure l’opposizione non si sente bene, soffrendo dello stesso discredito che rende lui così poco popolare. Il barometro della crisi istituzionale e politica è inchiodato sul tempo instabile. Ma a dire il vero, tutto ciò non è colpa solo di Castillo, non è nato con lui, ma viene da più lontano. Da un lungo malessere che ha regalato al Perù una girandola di cinque presidenti in quattro anni.