E adesso che succederà, dopo la decisione della settima sezione civile del tribunale di Napoli che azzera i vertici dei 5 Stelle? Cosa farà il fondatore del movimento, Beppe Grillo? I pentastellati sono sempre più a rischio di implosione e, dopo il pronunciamento dei giudici, lo scontro interno si sta rivelando sempre più come una lotta di potere. Ora, ai vertici dei 5 Stelle sono tornati il garante Beppe Grillo e il reggente Vito Crimi. È facile immaginare che l’esautorato Conte starà valutando le iniziative legali per tornare alla guida del partito. Di certo, il reggente Crimi dovrà garantire l’elezione di una guida collettiva (a cinque), cioè quanto decise la base del partito.
I giudici di Napoli hanno infatti dato ragione ai dissidenti dei pentastellati, rappresentati dall’avvocato Lorenzo Borrè, riconoscendo un deficit di democrazia interna nel momento in cui a capo dei 5 Stelle, nell’agosto scorso, fu eletto Giuseppe Conte. L’accusa è che non tutti gli iscritti poterono partecipare all’elezione. La decisione dei giudici napoletani arriva in un momento di forte tensione interna. Il presidente Conte aveva avvertito Luigi Di Maio: “Nei 5 Stelle nessuno è indispensabile”. E aveva precisato che, nel partito fondato da Beppe Grillo, “non sono ammesse le correnti”. Dopo la decisione del ministro degli Esteri di dimettersi dal Comitato di garanzia, proprio per avere le mani libere nel poter dire la sua sulle cose che non funzionano nel partito, Conte aveva voluto fissare dei paletti invalicabili, lasciando intuire che la battaglia interna si annunciava aspra (e che Di Maio potrebbe soccombere).
Siamo alla resa dei conti finale, dunque? Molto dipenderà dalle risposte alla sentenza del tribunale di Napoli, ma anche dalla “politicizzazione” dello scontro dentro il movimento pentastellato, che finora è sembrato essere solo di potere. Né Di Maio né Conte, finora, sono andati a uno scontro su differenti strategie politiche. Ambedue hanno sposato il confronto di prospettiva con il Pd, anche se nella settimana di elezione del capo dello Stato è sembrato che Conte dialogasse con Salvini.
Nell’editoriale di domenica sul “Fatto”, il direttore Marco Travaglio, molto vicino all’ex premier Conte, ha accusato il ministro degli Esteri di essere un infiltrato del partito trasversale “draghiano” che punta a scardinare le leadership di Pd, Lega e 5 Stelle. È esplicito Travaglio contro “il draghetto Grisù Di Maio”. La sua strategia è quella di consegnare per anni il governo alla “stella polare” Draghi.
Come finirà lo scontro interno è difficile pronosticarlo oggi. Di sicuro, Di Maio può contare su una corposa rappresentanza parlamentare dei 5 Stelle. Per esempio, un nervo scoperto di Conte è quello del silenzio sul tema delle candidature per il terzo mandato.
L’ex presidente del Consiglio avrà poche settimane a disposizione – al di là della decisione dei giudici napoletani – per esprimere l’orientamento che dovrebbe avere il partito sui referendum su giustizia, eutanasia e cannabis, se la Corte costituzionale darà semaforo verde per la loro indizione. E poi c’è anche la tornata elettorale amministrativa che ha una certa importanza.
Il Pd e Leu seguono in rispettoso silenzio, ma con molta apprensione, la crisi dei 5 Stelle. Perché il loro venir meno azzopperebbe la grande coalizione. Mentre muove i primi passi la nebulosa del centro. Anch’esso, per adesso, sembra un’anatra zoppa. Certo ci sono Matteo Renzi e il governatore della Liguria Toti, insieme con Mastella e Casini. Manca però Forza Italia. Che finora ha respinto l’invito, impegnandosi a volere ricostruire un’alleanza con Meloni e Salvini, che sembra essere anch’essa implosa. Fino a quando il parlamento non deciderà di avviare l’“istruttoria” della riforma elettorale, fino a quando non si capirà se l’orientamento sarà quello di approvare una riforma che reintroduce il sistema proporzionale, il destino di questo centro che sta per nascere, è appeso ai premi di coalizione e allo sbarramento elettorale.
La crisi dei 5 Stelle e del centrodestra impongono alla sinistra di un tempo, ai moderni progressisti, di allargare i loro orizzonti. Il che implica una rivoluzione. Se si abbraccia la riforma elettorale proporzionale, il Pd, nato con la prospettiva del maggioritario, dovrà rifondarsi, rimodulando culture e interlocuzioni sociali e politiche. Muoversi ora potrebbe apparire come un’invasione nel campo pentastellato. Ma assistere alla crisi in silenzio è una dichiarazione di impotenza. Forse il male minore sarebbe mandare segnali chiari al campo amico, di una possibile alleanza che va costruita su contenuti innovativi.