Nelle ore in cui il presidente turco, Erdogan, è a Kiev, per firmare importanti accordi bilaterali e tentare una mediazione tra il suo interlocutore ucraino e il suo omologo russo, vale forse la pena di ricordare che la Turchia è ancora un membro della Nato. Un’adesione sempre più problematica, visto che Erdogan ha maggiore familiarità con Putin, e vorrebbe importarne la ricetta politica nel suo Paese al fine di portare a casa l’ennesima rielezione l’anno prossimo. Un mediatore più amicale Putin non poteva trovarlo. I due hanno consolidata esperienza di spartizione mediorientale, cresciuta nel tempo, da quando Ankara e Mosca furono sul punto del baratro diplomatico per via di quel mig russo, diretto in Siria, abbattuto da Ankara perché sconfinato sui propri cieli.
Le ambiguità, del resto, non hanno salvato la Turchia dal corrente disastro economico, ma potrebbero tornare utili a tutti in questo momento, così da trovare il bandolo per parlarsi e uscire dallo stallo ucraino. Questo stallo non riguarda solo l’Ucraina: ha come posta in gioco l’intero assetto della sicurezza europea, com’è stato definito tra le parti dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La questione riguarda tutta l’Europa, anche questa Italia più attenta al festival di Sanremo che alle vicende internazionali, quasi che la nostra sicurezza non ci riguardasse. Non è così; e l’uso spregiudicato della carta “forniture del gas russo”, oggi quasi in regime di monopolio, dovrebbe dimostrarlo a tutti i cittadini-telespettatori.
Si è detto più volte che Mosca ha le sue ragioni nel chiedere un assetto diverso: se la Nato arrivasse ai suoi confini e le puntasse contro i missili a breve, media e lunga gittata si troverebbe assediata da un nemico potente. Ma Mosca – questo è il punto – dovrebbe spiegare perché, anziché chiedere accordi sulle infrastrutture militari, ponga il problema delle adesioni teoriche, o di principio. È questo il problema? Non sono le armi? In questo modo Mosca finisce col porre la questione della sovranità limitata dei suoi vicini? Se così fosse, sarebbe diverso. La questione ai suoi confini diventerebbe quella della sovranità dei Paesi che facevano parte, prima del suo scioglimento, del Patto di Varsavia.
Se la discussione riguardasse le infrastrutture, non coinvolgerebbe, infatti, la possibilità di adesione alla Nato dell’Ucraina – o della Georgia e di altri Paesi –, e non comporterebbe le minacce di rispondere con batterie missilistiche in Venezuela, a Cuba, o con l’intervento di milizie paramilitari in Africa e con cyber-attacchi in Occidente. Mosca potrebbe ritirarsi dalla Carta di Parigi del 1990 o dall’Osce; potrebbe denunciare il “Founding Act on Mutual Relations, Cooperation, and Security” firmato con la Nato nel 1997. Ma tutto questo aumenterebbe la sicurezza di Mosca?
Dunque è Mosca che deve stabilire quale sia la propria priorità. Vendicarsi dell’Occidente cinico e profittatore per l’umiliazione patita nel 1990, o tutelare davvero la propria sicurezza e renderla più equa o vantaggiosa? Queste domande potrebbero indurre a ritenere che il conflitto non sia il vero obiettivo di Mosca. Ci sono, come sanno tutti gli esperti, degli accorgimenti, a partire dalle “zone cuscinetto”, che potrebbero consentire un’agevole via d’uscita dal gelo e avviare un cammino di dialogo. È forse questo l’obiettivo? O sono le ricadute interne, nell’opinione pubblica russa, gli aspetti più rilevanti, che sin qui hanno trattenuto Mosca dallo scegliere un approccio non minaccioso?
Molti esperti sostengono che l’espansione a Est non sia una priorità della Nato, e comunque la storia dovrebbe dimostrare che l’adesione alla Nato (come nel caso della Francia) non implica la partecipazione ai suoi corpi militari. Come ha scritto il Carnegie Insitute “specifiche questioni relative all’espansione geografica della Nato potrebbero essere negoziate nell’ambito di un nuovo Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa, vincolante per Mosca e Bruxelles”.
Anche l’Europa ha dei chiarimenti urgenti da fare. Il ritiro americano è ormai in atto; ma l’Europa non sa elaborare una politica di difesa continentale, il che comporta una spesa comune, unità comuni, investimenti, non solo suppliche per le forniture di gas. Un’Europa non militarista ma consapevole di esistere, e di doversi assumere le proprie responsabilità, è un banco di prova che si vuole evitare, perché comporta cessioni di sovranità e assunzione di spese. Ma se si crede nell’Europa, questo è oggi indispensabile.