Il primo febbraio 2021, dopo un breve periodo di rodaggio nel pieno delle chiusure imposte dalla pandemia, iniziava la nostra piccola avventura. Abbiamo cercato, in questi mesi, di essere il più “selettivi” possibile. Di ciò ci si potrà stupire: perché, per esempio, non occuparsi di libri e di film pubblicando delle recensioni? Perché concentrarsi soltanto sui temi politico-sociali e, tra questi, fare delle scelte? La risposta è semplice: “meglio meno ma meglio” – si potrebbe dire – riecheggiando un vecchio slogan. Non potendo occuparci “di tutto”, anche per evidenti ragioni di limitatezza delle forze, la soluzione è stata quella di caratterizzarci con alcuni argomenti che ci è sembrato importante trattare. Sul resto abbiamo taciuto. Il livello più alto di “giornalismo selettivo”, lo abbiamo forse raggiunto proprio negli scorsi giorni, quando ci siamo rifiutati di seguire, o inseguire, i retroscena, reali o presunti, e le varie indiscrezioni giornaliere circa le candidature alla presidenza della Repubblica. È stato un esempio di serietà, che oggi ci permette di giudicare l’accaduto con totale libertà di pensiero.
Qualche lettore sarà rimasto sorpreso dal grande rilievo che diamo agli avvenimenti latinoamericani. Questo non dipende soltanto dalla biografia intellettuale di alcuni di noi; in quei Paesi vediamo operante, infatti – e non da ora –, nel modo più chiaro e talvolta brutale possibile, la linea di demarcazione tra progresso (o progressi, al plurale) e conservazione sociale, tra destra e sinistra, con tutta la confusione possibile tra l’una e l’altra data dalla lunga tradizione “populistica” di quell’immenso e difficile continente. Sotto certi aspetti, guardando all’America latina, si può cogliere qualcosa – per contrasto e analogia – di quanto è avvenuto negli ultimi decenni anche da noi. Lo sviluppo del berlusconismo politico a partire dagli anni Novanta, e poi la bolsonarizzazione indotta da Salvini, presentano molteplici punti di contatto con vicende come quella argentina e brasiliana. Al tempo stesso, il successo di una “nuova sinistra meticcia”, come l’ha definita Aldo Garzia, oggi in Cile, potrebbe offrire alcuni degli spunti necessari a un rimescolamento delle carte della stessa sinistra nostrana.
Sulla pandemia abbiamo avuto un atteggiamento di rigore, in linea con l’idea che la salute collettiva non possa che avere la priorità sulle libertà individuali. Abbiamo perciò denunciato le spinte qualunquistico-reazionarie, quando non apertamente fasciste, delle agitazioni “no vax” e “no pass”. Nei confronti di alcune teorizzazioni libertarie a briglia sciolta, abbiamo cercato di far valere una posizione che considera l’individualismo occidentale moderno come un elemento decisivo, certo, quando si tratti di affermare progetti di emancipazione dei singoli uomini e delle singole donne da forme di sfruttamento e di oppressione, ma come qualcosa che non può prevalere sul senso della collettività, specialmente quando si tratti della salute. Osserviamo perciò con preoccupazione la tendenza, che va affermandosi un po’ ovunque in Europa, a dare la pandemia già per risolta grazie alla vaccinazione di massa. Non si possono porre al primo posto le attività economiche, abbandonando le restrizioni quasi del tutto, con il rischio di avere una moltiplicazione delle varianti del virus e, per conseguenza, l’inseguimento di esse da parte dei vaccini ogni volta riadeguati. Questa corsa di Achille e la tartaruga, che infine la pandemia ci prospetterebbe, ci sembra far comodo soltanto agli interessi delle case farmaceutiche; mentre il nodo essenziale di una diffusione dei vaccini in tutto il mondo (e in particolare in Africa) rimane colpevolmente irrisolto.
Riguardo al governo Draghi (che tra l’altro si formò proprio a ridosso delle nostre prime uscite), abbiamo avuto tutta l’attenzione necessaria, non una posizione preconcetta – pur considerando che il governo precedente fosse “più a sinistra” di questo attuale di larghe intese, che prese piede con un “colpo di mano parlamentare” sotto la pressione, neanche nascosta, degli interessi borghesi del Nord del Paese. Abbiamo cercato di giudicare, quindi, il mitico Piano nazionale di ripresa e resilienza, da cui tanta parte dei nostri destini dipende, per come andava delineandosi e precisandosi. E la conclusione, in particolare riguardo ai temi della riconversione ecologica e dei divari territoriali (da sempre spaventosamente presenti nel tessuto nazionale), è stata negativa. Oggi sappiamo che il Pnrr – così come altre scelte del governo, soprattutto in materia di politica fiscale –, non farà che accrescere le diseguaglianze, se le cose rimarranno come stanno. Occorrerebbe un cambio di passo, o meglio una decisa svolta, di cui purtroppo non si intravedono le premesse, con un Pd che appare sempre più “sdraiato” sul governo Draghi.
È appunto il Pd, questo partito più di centro che di centrosinistra, insieme baluardo elettorale nei confronti della destra e organismo del tutto insufficiente ad affrontare la “questione sociale” – dai problemi posti dalla diffusione del precariato alle crisi industriali, fino a quelli più generali della politica fiscale –, il punto di riferimento critico del nostro discorso politico. Di questo “partito sbagliato”, come lo ha chiamato Antonio Floridia in un suo libro, si deve riconoscere la funzione che attualmente svolge, nonostante tutto; e al tempo stesso non smettere mai di considerarlo come qualcosa che un eventuale processo di costruzione di una sinistra socialista ecologista dovrà, per forza di cose, lasciare da parte.
Con questo spirito arditamente critico e sobriamente realistico, cominciamo il nostro secondo anno di vita, confidando che quei lettori, che un po’ alla volta ci stiamo conquistando, non ci abbandoneranno.