L’alternanza scuola/lavoro può essere utile ai ragazzi che studiano, o è solo uno strumento in mano alle aziende che hanno scoperto le possibilità di nuove forme di sfruttamento del lavoro e di pubblicità gratuita? La domanda non è affatto banale ed è rimbalzata più volte in questi giorni nel dibattito pubblico, dopo la tragica notizia della morte di Lorenzo Parelli, giovane di 18 anni, che il 21 gennaio è entrato in una fabbrica in provincia di Udine dove svolgeva il suo ultimo giorno di apprendistato scuola/lavoro, ma non è mai tornato a casa. E la notizia – una di quelle che risultano quasi inverosimili per la carica di dolore che trascinano –, oltre alle discussioni teoriche, ha suscitato la reazione immediata degli studenti che hanno manifestato in varie città. A Roma e a Torino le cronache hanno registrato anche qualche scontro con la polizia.
Le reazioni del mondo politico e degli opinionisti sono state pressoché unanimi (con qualche scivolone retorico e infarcito di ipocrisia). Sono (siamo) tutti d’accordo: non è ammissibile accettare la morte di un giovane studente in fabbrica. Il sistema va ripensato soprattutto per come è impostato oggi, con regole frutto della riforma voluta da Matteo Renzi sulla “buona scuola”. Ma dove sono le vere responsabilità? Quali sono le colpe? La dinamica dei fatti e gli eventuali reati penali sono oggetto dell’inchiesta della magistratura. Ne conosceremo gli esiti. Intanto potremmo cercare di proporre qualche considerazione generale sul funzionamento del “sistema”.
La scuola è il vecchio, l’impresa è il nuovo
La prima considerazione riguarda in generale una trasformazione culturale che negli ultimi trent’anni ha marciato insieme al pieno dispiegarsi del liberismo. Alla vecchia accusa di idealismo rivolta alla pedagogia italiana si è affiancata una spinta sempre più forte a guardare fuori dalla scuola, a guardare insomma a quel mercato del lavoro reale, che poi produce la disoccupazione giovanile (reale) che ben conosciamo. Invece di guardare con onestà al “fuori”, cioè allo stato presente delle cose, si è cominciato a guardare alle imprese anche e soprattutto come fonte di finanziamenti per una scuola, che non riesce più neppure a ristrutturare i suoi locali. È passata un’idea semplice: la scuola è roba vecchia, le imprese sono il nuovo. La scuola pubblica è sempre più povera, le imprese hanno i soldi. Così con la gestione di ministri e ministre come Letizia Moratti (2001-2006), Maria Stella Gelmini (2008-2011), ma poi anche con Matteo Renzi, che nel 2015 ha reso obbligatorie le ore di alternanza scuola/lavoro, si è compiuta una doppia operazione: da una parte si è abbassato l’obbligo scolastico e si sono ridotte le risorse finanziarie per la scuola (riducendo anche le ore di lezione di singole materie); dall’altra, si è appaltato tutto “fuori”, delegando alle imprese il percorso di formazione pratica. Meno laboratori a scuola, più stage in azienda, arrivando anche a scelte paradossali come quella di proporre un pacchetto di ore di alternanza sul lavoro in banca a ragazzi e ragazze iscritte ai licei classici.
Al supermercato degli stage
La seconda considerazione, che si lega direttamente alla prima, riguarda la logica generale della formazione scuola lavoro. Per come sono messe oggi le cose – da quello che leggiamo e da quello che ci raccontano amici insegnanti – non esiste un programma nazionale omogeneo e non esistono percorsi studiati secondo principi di compatibilità. Le esperienze di alternanza partono quasi sempre da gruppi industriali e aziende che, oltre a sponsorizzarsi, hanno modo di far lavorare (gratuitamente) i giovani studenti. Chi ha la pazienza di andare sul sito del Miur, il Ministero dell’università, potrà verificare direttamente il grande sventagliamento (qualcuno direbbe la ricchezza dell’offerta) delle proposte di esperienze di formazione extrascolastica. Si va dalle esperienze di agricoltura biologica organizzate proprio a Udine della Caritas, al corso organizzato dalla facoltà di Fisica dell’università La Sapienza: la catalogazione e lo sviluppo di esperimenti realizzabili nei laboratori di fisica, scienze, chimica e robotica delle scuole superiori di secondo grado coinvolte nel progetto, nonché la formazione per riparare la strumentazione non funzionante. Ci sono esperienze quasi inventate ed esperienze serie, che vengono giudicate positivamente anche dai sindacati.
Un esempio positivo potrebbe essere quello del progetto ideato dalla Ducati e dalla Lamborghini, con finanziamento esterno della fondazione Volkswagen, per il recupero di ragazzi “drop-out”. Sul sito del Miur leggiamo: coprogettazione didattica di team misto aziende/scuole; accordo di rete. Alternanza al 50% tra scuole e training center aziendali. Innovazione didattica. Obiettivi: esame di Stato e certificazione di competenze aziendali (profilo Meccatronico 2/4 ruote e Operatore CNC).
C’erano una volta le scuole professionali
Le esperienze che sembrano più funzionali riguardano comunque soprattutto gli istituti tecnici, come se l’alternanza scuola/lavoro avesse in fondo sostituito il vecchio percorso dell’abilitazione professionale. Così, tra i progetti, leggiamo per esempio quello della Barilla. Un progetto che ha coinvolto 180 studenti e tre scuole distribuite su territorio nazionale (Puglia e Marche). Sono coinvolti gli studenti degli istituti tecnici, con l’obiettivo di prepararli al mondo del lavoro, attraverso l’acquisizione di competenze tecniche distintive e azioni di orientamento per le successive scelte di studio e professionali. Il discorso sulla Barilla si può estendere anche a molti grandi gruppi industriali. Sul sito del ministero scopriamo, infatti, i progetti della Snam, dell’Enel, di Terna, rete elettrica, della cantieristica navale.
Il Bel Paese dell’arte e dell’archeologia
La terza considerazione riguarda la qualità della formazione offerta negli stage di alternanza scuola/lavoro. Da una parte abbiamo visto che l’origine dei progetti è quasi sempre casuale, partendo nella maggior parte dei casi dalle proposte di aziende e gruppi industriali e bancari come Unicredit e Bnp Paribas, e non dalle idee originali dei docenti e dei dirigenti scolastici. Dall’altra, si può notare una scarsa attinenza dei progetti di alternanza scuola/lavoro con le caratteristiche del territorio dove le scuole risiedono e operano. Ma anche da questa prospettiva bisogna evitare facili generalizzazioni: ci sono infatti eccezioni positive, visto che ci sono state scuole e Regioni che oltre a guardare alla globalizzazione hanno fatto lo sforzo di caratterizzare i progetti in base alle caratteristiche culturali delle singole zone del Paese. Così troviamo progetti legati all’archeologia e ai musei più caratteristici nelle zone dove la ricchezza della storia culturale è più forte. Vari gli esempi in questo senso come quelli di Lamezia Terme, di Castrum Novum di Santa Marinella (vicino a Roma), o del Bioparco in Sicilia.
Il lavoro come è oggi o come sarà?
La quarta considerazione riguarda il concetto di aggiornamento tecnologico e per conseguenza professionale. L’idea che l’impresa sia per definizione moderna e nuova (quasi un’eco del futurismo italiano) si basa sul concetto che il lavoro si può imparare solo con le esperienze concrete legate all’attuale divisione del lavoro e all’organizzazione della produzione. In fabbrica si imparano il lavoro e i processi. In aula (anche nelle università) si può fare solo teoria. Questa concezione (che pure ha le sue solide ragioni) trascura però uno degli elementi principali della contemporaneità che è basata sulla grande trasformazione e la velocità dei cambiamenti. Processi che sembrano all’avanguardia oggi potrebbero diventare obsoleti in poco tempo. La digitalizzazione è la grande maestra. Il cambiamento è continuo e vorticoso. Quindi invece di prendere per oro colato tutto quello che propongono oggi le industrie si dovrebbe (lo Stato dovrebbe) fare lo sforzo di analizzare il cambiamento e mettere in campo previsioni su quello che sarà.E soprattutto su quello che servirà per costruire il mitico modello di sviluppo ecocompatibile di cui parlano tutti. Un discorso questo che diventa dirompente anche in questo periodo di applicazione dei progetti del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
In questo contesto è anche utile sottolineare l’importanza di guardare all’altra faccia della formazione, ovvero quella che riguarda i lavoratori. Ci fu negli anni Settanta la grande esperienza delle 150 ore, i corsi di aggiornamento non solo professionale, ma culturale dei lavoratori. In un momento in cui tutti i mestieri e i lavori cambiano continuamente e rapidamente la formazione permanente (unita magari alla riduzione dell’orario di lavoro) dovrebbe essere un obiettivo centrale.
Il lavoro dello studente è studiare
La quinta considerazione, la più “inattuale”, la dedichiamo ad Antonio Gramsci che, oltre a essere stato un grande dirigente politico, era anche un raffinato intellettuale e un attento conoscitore degli sviluppi della pedagogia dell’inizio del Ventesimo secolo. Ricordiamo quello che scriveva dal carcere Gramsci ai suoi due figli, Delio e Giuliano. “Lo studio è un lavoro. La scuola va considerata un lavoro, le ore a scuola sono ore di lavoro senza doverle alternare con altre attività che, automaticamente, verrebbero a privare il lavoro della scuola di quello che esso è nella realtà: appunto, lavoro”. E ancora: “Io credo che una delle cose più difficili alla tua età è quella di star seduto dinanzi a un tavolino per mettere in ordine i propri pensieri (o per pensare addirittura) e per scriverli con un certo garbo; questo è un apprentissaggio talvolta più difficile di quello di un operaio che vuole acquistare una qualifica professionale, e deve incominciare proprio alla tua età”.
E ancora qualche parola di Gramsci: “Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite”.