“Sono vecchio, fra otto mesi potrò riposare”: la previsione o speranza che Sergio Mattarella espresse a maggio di fronte a una scolaresca romana si è rivelata fallace. Al di là della stucchevole retorica sul “sacrificio” del presidente della Repubblica riconfermato, dal punto di vista politico il ricorso a un ottantenne come soluzione per uno stallo politico è la spia evidente del fatto che il ponte di comando della nave Italia si avvia a diventare un fossile, nonostante decenni di “riforme” istituzionali per lo più tentate e, in qualche caso, purtroppo riuscite (Titolo Quinto della Costituzione, Province, taglio dei parlamentari) e di deliri “nuovisti”. Mattarella resta un politico della cosiddetta prima Repubblica, entrato in parlamento quando Matteo Salvini aveva dieci anni, Giorgia Meloni sei, e Luigi Di Maio non era ancora nei progetti dei suoi genitori.
Tra i molteplici significati della sua rielezione, spicca nell’immediato il riferimento che, accettando l’incarico, il capo dello Stato ha fatto al “senso di responsabilità” di fronte alla “grave emergenza che stiamo tuttora attraversando – sul versante sanitario, su quello economico, su quello sociale”. Condizioni che “devono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti”. Le “altre considerazioni”, com’è noto da tempo, riguardano l’opportunità del bis dal punto di vista costituzionale: nei molteplici interventi dedicati da Mattarella a questo tema, negli ultimi mesi, non è mancata la sottolineatura sul fatto che un’eccezione (quella fatta per Giorgio Napolitano) che si ripete diventa prassi. Una prassi in contraddizione – era questo il senso dei suoi ripetuti richiami – con lo spirito dei padri costituenti, benché il divieto del secondo mandato non sia stato inserito nel testo della Carta.
Uno dei problemi posti dal richiamo presidenziale all’emergenza in corso è che non è facile capire dov’è situato il confine fra eccezione e normalità, dal momento che nella gestione governativa di questi ultimi mesi è prevalsa, apparentemente, la spinta al ritorno verso quest’ultima. Spinta visibile nella sospensione delle regole eccezionali sui licenziamenti, nel contrasto dichiarato allo smart working, nella modestia, se non assenza, di interventi straordinari su sanità, scuola e trasporto pubblico. Quando e come termina l’emergenza? E quando finisce l’eccezione finisce anche il compito di Mattarella? Quello che è filtrato attraverso il dibattito politico è che, come lui stesso aveva lasciato intendere ai suoi interlocutori, un eventuale secondo mandato non avrebbe potuto essere considerato a termine. Non esiste un presidente della Repubblica in funzione di tappabuchi. Ma è chiaro che i primi sconfitti di questa partita sul Quirinale – cioè quelli che hanno scommesso forte, in Italia e all’estero (anche se con qualche voce dissonante per esempio nella grande stampa finanziaria), sul passaggio di Mario Draghi al Quirinale per stabilizzare il “vincolo esterno” sull’Italia, teorizzato a suo tempo da Guido Carli – sarebbero probabilmente pronti a sponsorizzare la stessa operazione se il secondo mandato di Mattarella dovesse avviarsi a conclusione per volontà dell’inquilino del Quirinale.
L’aspetto più significativo del superamento della candidatura di Draghi (o autocandidatura, secondo la lettura prevalente della sua dichiarazione sul “nonno al servizio delle istituzioni”) è che questo esito sembra allontanare lo spettro di elezioni anticipate, anche se le crisi multiple apertesi nei diversi schieramenti e in alcuni partiti non garantiscono affatto una navigazione tranquilla al suo governo. Per ora, comunque, torna appieno sulle spalle di Draghi la responsabilità di gestire il Piano nazionale di ripresa e resilienza, e di negoziare le nuove regole europee sui bilanci e il debito pubblico. Soprattutto su questo ultimo aspetto, il fatto che a confrontarsi con Bruxelles e Francoforte debba essere l’ex governatore della Bce e non uno dei tanti improbabili successori a palazzo Chigi sui quali si è esercitato il toto-nomi dei giornali, può essere senz’altro messo a bilancio di questo passaggio nella voce “attivi”. Sull’inadeguatezza del Patto di stabilità e sulla necessità di cambiare le regole dell’Unione europea, Draghi si è pronunciato più volte, e ha costruito un asse con il presidente (uscente) francese Emmanuel Macron. È forse la partita più delicata per il futuro dell’Italia e dell’Europa.
Rimane da fare un passo indietro: il fatto che ci si sia trovati a discutere seriamente dell’ipotesi che per il nuovo presidente della Repubblica si dovesse scegliere fra il presidente del Consiglio in carica, la responsabile dei servizi segreti e il presidente della Repubblica uscente è una dimostrazione lampante dello stato di salute precario della nostra democrazia. Senza ricorrere a paragoni eccessivi con i cambi della guardia al Cremlino fra Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev, la prima ipotesi – il trasloco di Draghi al Colle –, rappresentava una soluzione piuttosto traumatica dal punto di vista della prassi costituzionale; la seconda (considerando che Elisabetta Belloni non viene dalla carriera spionistica ma da quella diplomatica) sarebbe stata pessima sotto il profilo dell’immagine, interna e internazionale, dell’Italia, che rischiava di essere associata a qualche oscura repubblica latinoamericana; sulla terza, quella che poi si è realizzata, abbiamo già richiamato i severi moniti a suo tempo lanciati dallo stesso Mattarella.
Le modalità di gestione del negoziato e delle candidature sono state in qualche caso azzardate, confuse, opache. Le perplessità sulla statura dei leader protagonisti di queste giornate sono tutte lecite. In parlamento c’è chi ha festeggiato la rivincita dei parlamentari (o dei “peones”, come sono in genere definiti deputati e senatori di minor peso) sui dirigenti di partito. In tanti, di fronte alla conclusione della settimana dedicata all’elezione del presidente della Repubblica, si sono esercitati a parlare di “sconfitta della politica”. È però una china pericolosa. Il dibattito pubblico ci ha abituati da decenni alla progressiva delegittimazione e in qualche caso auto-delegittimazione della politica e dei riti della democrazia parlamentare. Ma la pressione dei giornali e degli interminabili talk show televisivi sul parlamento per il presunto “spettacolo indecoroso” cui stavano dando vita i leader di partito e i grandi elettori visto il vano susseguirsi degli scrutini (pochi in realtà, ci sono precedenti clamorosi come i 23 scrutini per eleggere Giovanni Leone e i 16 per Sandro Pertini) è l’ennesima dimostrazione della contiguità ideologica fra le diverse forme di antipolitica.
C’è quella che siamo soliti definire “populista”, attribuita alle forze politiche più varie, in Italia più di frequente alle forze di destra come la Lega e Fratelli d’Italia o agli outsider del Movimento 5 Stelle, e quella “tecnocratica”, che impone la superiorità dei processi decisionali dei “competenti” rispetto alla rappresentanza di interessi che la politica dovrebbe condurre a mediazione e sintesi, identificando per questa via l’interesse nazionale o il bene comune prevalente da perseguire. È forse prematuro chiedersi a quale di queste correnti bisogna iscrivere il tentativo di innestare su questo passaggio critico della vita della Repubblica il rilancio di una campagna per la riforma della Costituzione in senso presidenzialista. Su questo tema si sono pronunciati, in questi giorni, il leader di Italia viva, Matteo Renzi, e la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, coerente con la sua tradizione politica di provenienza e pronta, presumibilmente, a fare di questa battaglia una delle armi della sua campagna elettorale. Questa rischia di essere l’eredità più avvelenata di questo voto per il Quirinale. Chi si colloca, o quanto meno ritiene, di collocarsi a sinistra o nell’ambito delle forze progressiste non potrà disinteressarsene.