Possenti acquazzoni hanno ridato finalmente respiro a Buenos Aires, semiasfissiata dai quarantacinque gradi all’ombra di quest’estate australe, la cui sovrabbondanza di ozono si avverte quasi sotto i denti. Ma solo un po’ spaurita dal Covid che non cessa di riempire ospedali e fare vittime. Dai quartieri alti sul fiume a quelli densamente abitati e senza verde verso Sud, oltre l’avenida Cordoba, la gente rimasta in città ha prolungato le proprie soste ai tavoli dei caffè, luogo fondamentale dei due miti sociologici nazionali: la classe media (alta) e il popolo. A cambiare sono stati le preoccupazioni e gli umori nei rispettivi discorsi, con un’appena percettibile riduzione dello scetticismo diffuso da sempre in entrambi gli ambienti; oggi inasprito dalla grieta, la spaccatura che frattura a fondo il paese anche nella percezione della sua stessa quotidiana realtà.
Discreti rallegramenti e qualche veloce saluto a pugno chiuso ma copri-bocca abbassato sul collo ai tavoli del tradizionale “La Biela”, alla Recoleta, per l’interruzione della prolungata siccità che minacciava i raccolti della moderna e possente agricoltura argentina (terza esportatrice al mondo: oleaginose, agrumi e carne; fonte essenziale di valuta pregiata per l’erario pubblico). “Per fortuna sulla pioggia ancora non ci sono tasse da pagare…”, polemizza qualcuno. Con ogni probabilità, proprietario terriero o socio degli innumerevoli circoli finanziari che consociano produttori minori o risparmiatori pronti a investire acquistando, in anticipo, i raccolti per poi commercializzarli nel momento ritenuto più vantaggioso. I grandi latifondisti non frequentano i bar, per esclusivi che siano; e di questi tempi stanno nelle piscine delle loro estancias o su qualche spiaggia tropicale.
Mentre gli auguri che frequentemente si sentono scambiare nei boliches popolari rimandano ai black-out che puntualmente, ogni estate, lasciano al buio decine di migliaia di abitazioni e commerci, bloccando gli ascensori e facendo deperire gli alimenti nei frigoriferi. Sottoposte a una richiesta eccezionale di aria condizionata, infatti, le reti di distribuzione elettrica urbane vanno in tilt. Così come i bilanci degli utenti di fronte ai rincari delle bollette. Non solo le famiglie, anche le piccole e medie aziende faticano a pagarle o vanno in mora. È l’ultima insidia tanto per i posti di lavoro scampati finora alla recessione accentuata dai due anni di pandemia, quanto per quelli recuperati dall’azione del governo peronista nel 2021. Per i Paesi di sviluppo intermedio come l’Argentina, e per gran parte dell’America latina, è una fatica di Sisifo.
Il cielo carico di nuvole oscure è anche la ineludibile metafora della nuovamente allarmante congiuntura economica argentina. Assorbito il primo choc da Covid-19, la ripresa ha realizzato risultati nient’affatto scontati: export + 9% nel 2020 e di poco inferiore nella contabilità previsionale dell’anno appena concluso; bilancia dei pagamenti in attivo; incremento della raccolta fiscale e del Pil (anche per il 2022: +2,2 secondo il pronostico). Le robuste sovvenzioni decise in sostegno al turismo interno, per la stagione in corso, hanno rianimato i consumi: soprattutto trasporti, industria alberghiera e commerci vari. Sebbene in parte calcolata nella strategia economica del governo, però, la inarrestabile inflazione (che arriva al 50% negli ultimi dodici mesi) strappa con una mano gran parte di quello che distribuisce con l’altra. È il cane che si morde la coda.
Il peccato originale ha una complessa dinamica storica. Scaturisce dall’insufficiente capitalizzazione del sistema Paese rispetto alle sue necessità economiche (un problema che in Italia può essere meglio compreso che altrove…). Quindi da politiche di sviluppo prevalentemente fondate sul credito esterno, accentuate negli ultimi cinquant’anni dalle crescenti aperture dettate dall’avanzata planetaria di privatizzazioni e globalizzazione. Periodi ciclici che molti argentini racchiudono nella formula illusione-disincanto, e dai quali la maggior parte dei governi è uscita tutt’altro che indenne. Quasi tutti infiltrati a fondo, o quanto meno lambiti, da inefficienze e corruzione, che hanno lasciato briglia sciolta a evasione fiscale e fuga di capitali (è comunemente accettata la stima che equipara il complessivo indebitamento del Paese alla somma dei beni posseduti all’estero da alcune centinaia di migliaia di argentini: 350-400mila milioni di dollari).
Nell’immediato, l’iceberg che il presidente Alberto Fernández, e la vice Cristina Kirchner, tentano disperatamente di evitare (tuttavia non a qualsiasi prezzo) è il default dell’impagabile debito ereditato dal precedente governo di Mauricio Macri. Sarebbe la seconda bancarotta dopo quella devastante del 2001, e potrebbe privare il grande Paese sudamericano (43-44 milioni di abitanti, quarto Pil dell’intero continente) d’ogni fonte di finanziamento, fino a determinarne la deriva finanziaria, spingendolo in un sisma politico-economico dalle conseguenze imprevedibili. Si tratta dei 44mila milioni di dollari concessi nel secondo semestre 2018, in “formula stand-by”, dal Fondo monetario internazionale di Christine Lagarde, su pressione – si dice – dell’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, amico ed ex socio della famiglia Macri. Il maggior credito mai autorizzato dal Fondo, che adesso riconosce di aver commesso un grave errore.
Il documento “Ex post Evaluation”, dei giorni scorsi, ribadisce che la diagnosi del ministero dell’Economia di Macri, sulla cui base fu deciso il prestito, era sbagliata: aggravò, invece di alleviarlo, il processo inflazionario (che “non era un fenomeno semplicemente monetario, in quanto provocato da squilibri di mercato e redistributivi (…). Una politica di coordinamento di prezzi e salari ne avrebbe favorito il contenimento, ma fu giudicata inadeguata dal Presidente Macri”). “È stato il maggiore fallimento del Fondo monetario”, commentano a Washington. L’economia non è una scienza esatta – viene da aggiungere, per rammentare potere e responsabilità della politica. E l’economista Mariana Mazzucato osserva che fino al 1970 “la finanza era inclusa nei calcoli del Pil solo come un input intermedio, ossia un servizio che contribuiva al funzionamento di altre industrie; quelle sì, vere creatrici di valore”.
“I debiti non si pagano, si amministrano”, ripeteva l’adesso unanimemente rimpianto presidente Raúl Alfonsín, per sdrammatizzare la pesante situazione debitoria accumulata verso la conclusione del suo mandato, nel 1988. Non mancava di ragioni, sempre e quando quell’amministrazione risulti tempestiva. Lui, malgrado il gran fiuto da caudillo liberal-socialista e la specchiata onestà, non ci riuscì del tutto. Dovette scontare qualche brutta turbolenza. E non è certo che l’attuale governo – il quale pure, appena installato alla Casa Rosada ha rinegoziato abilmente quasi settanta milioni di debiti con il banking internazionale pubblico e privato, lasciando per ultimo il creditore numero uno, il Fondo monetario internazionale – abbia calcolato perfettamente i tempi. Le trattative condotte dal ministro dell’Economia, Martín Guzmán, allievo prediletto del Nobel Joseph Stiglitz, appaiono ora in affanno.
L’atmosfera è cambiata. Il riemergere dell’inflazione, in tutto l’Occidente, spinge al rialzo i tassi di sconto. Biden ha perduto il suo smalto. Succeduta alla Lagarde, Kristalina Georgieva appariva particolarmente disponibile, tanto da favorire la trattativa con gli altri creditori (Club di Parigi e privati), dicendo a tutti che l’Argentina non era in condizioni di pagare. Ora, però, è sotto attacco all’interno stesso del Fondo da parte dellalobby trumpista. Al Western Department (l’ufficio preposto all’America latina, antico feudo degli italiani, da Vito Tanzi a Teresa Ter-Minassian), c’è un neoliberista convinto, Ilan Goldfajn, già responsabile del Banco centrale brasiliano. Anche al Fondo è ripresa la battaglia tra i sostenitori della crescita, favorevoli alla flessibilità dell’espansione creditizia, e i rigoristi della stabilità di bilancio. Ma in questa economia mondiale del debito (i cui capofila assoluti sono gli Stati Uniti), dall’America latina all’Asia e all’Africa, ci sono tre dozzine di Paesi sul ciglio dell’abisso.
Se cede alla miopia di una visione contabile e immediata della situazione, il Fondo monetario internazionale potrebbe innescare una nuova crisi globale. Nessuno lo dice apertamente, ma sommata alle ammissioni di corresponsabilità del Fondo è questa la “carta nascosta” degli argentini nella trattativa che procede a ritmo serrato. Con dead-line al prossimo marzo, quando scadranno pagamenti per milioni di dollari che in cassa non ci sono… Non solo a Washington, anche a Buenos Aires, all’interno del governo, cresce l’ansia. Al presidente Alberto, che chiede spazio di manovra per il suo ministro dell’Economia, la vicepresidente Cristina replica alzando una volta ancora la voce per ricordare che “la pandemia del debito di Macri costa al Paese ferito più di quella del coronavirus”. In gioco c’è la base elettorale del governo peronista e la stabilità istituzionale del Paese. Poiché il pareggio di bilancio preteso dal Fondo significa il taglio della spesa sociale, e il conseguente rischio dell’ingovernabilità.
Tratto dal blog di Livio Zanotti