Il 20 gennaio 2021 è stato un giorno di grandi speranze per gli Stati Uniti: sulla scalinata del Campidoglio di Washington, violato e devastato due settimane prima da una folla inferocita, iniziava il mandato del nuovo presidente Joe Biden. Dopo gli squilli di tromba, i discorsi di prammatica, l’inno nazionale cantato da Lady Gaga e la toccante poesia recitata dalla giovane poetessa nera Amanda Garson, dopo il giuramento sulla Bibbia, Biden pronunciò il suo primo discorso da presidente: un discorso di speranza in cui promise di pacificare il paese facendogli superare le violente contrapposizioni dell’era trumpiana.
Biden era l’uomo giusto per fare queste promesse: da sempre un uomo del dialogo, un moderato in sintonia con il sentire dell’uomo comune, un uomo anziano provato da tragedie famigliari, sembrava il più adatto a fare uscire il Paese dalla pandemia, a sanare l’economia traballante, e le molte ingiustizie e diseguaglianze, dando un’immagine di calma e di stabilità. Per questo era stato eletto.
A distanza di un anno da quel giorno cosa rimane delle promesse e delle speranze? A giudizio di molti commentatori e sondaggisti molto poco. La pandemia continua a imperversare con quasi duemila morti al giorno e solo il 65% della popolazione vaccinata. L’economia tira e la disoccupazione è scesa, ma l’inflazione galoppa, soprattutto per i beni di prima necessità, creando sofferenza tra gli strati più poveri della popolazione.
Delle tanto decantate riforme e investimenti nel sociale non si è ancora visto nulla. L’unico successo è stato l’approvazione della legge per rinnovare le fatiscenti infrastrutture nazionali, di cui però gli effetti si vedranno solo tra qualche anno; mentre un analogo piano di investimenti “sociali” (asili nido, università, assistenza sanitaria, permessi parentali, edilizia sovvenzionata, tutela dell’ambiente, energie rinnovabili…) è bloccato nel Congresso e probabilmente non vedrà mai la luce. Lo stesso per la riforma dell’immigrazione, e per la riforma del diritto penale e delle carceri (gli Stati Uniti sono il Paese con il più alto numero di carcerati al mondo). Lo stesso per la riforma delle norme elettorali, considerata fondamentale per restituire ai cittadini – soprattutto alle minoranze, agli anziani e ai più poveri – il pieno diritto di voto e assicurare elezioni oneste.
A questi fallimenti sul piano legislativo, si aggiunge una serie di imbarazzanti débâcle nell’attività di governo: la precipitosa e caotica fuga dall’Afghanistan, la vergognosa vicenda dei profughi haitiani presi a frustate e ricacciati nel Rio Grande dalle guardie di frontiera, i numerosi uragani, alluvioni, incendi che hanno devastato il Paese, rispetto ai quali l’amministrazione è sembrata impotente, il blocco di milioni di container nei porti per inadeguatezza della rete dei trasporti, con consumatori e aziende privi di rifornimenti essenziali; e, da ultimo, l’imbarazzante vicenda del tanto decantato 5G americano, sviluppato in fretta e furia per battere i cinesi, e dimostratosi un rischio per le comunicazioni radio, con conseguente cancellazione di migliaia di voli da parte delle compagnie aeree.
A cosa si deve questa impressionante sequela di fallimenti, mancate promesse e inadeguatezze? Ci sono almeno tre cause, più una quarta, la più dolorosa.
Cause politiche
Nelle elezioni del 2020 i democratici hanno vinto la presidenza e la Camera dei rappresentanti; al Senato hanno ottenuto solo la parità degli eletti, cui però si aggiunge il voto della vicepresidente Harris. Ma, a differenza del Partito repubblicano, che si presenta oggi molto compatto ideologicamente, il Partito democratico è una “grande tenda”, una sorta di cartello elettorale, sotto la quale si ritrovano parlamentari e posizioni molto diverse tra loro: da una parte, i progressisti di sinistra come Bernie Sanders e il gruppo di nuove elette denominato “the Squad” (Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar e altre e altri), e dall’altra i centristi e conservatori, che un tempo si chiamavano Blue Dogs, come Joe Manchin e Kyrsten Sinema. Mentre la sinistra del partito ha accettato le proposte di mediazione al ribasso del presidente, pur di fare approvare una parte del loro programma, la destra le ha rifiutate. Per Manchin il piano di investimenti sociali di Biden è troppo “ambizioso”, e, poiché il suo singolo voto al Senato è determinante, lo ha di fatto affossato. Per la senatrice Sinema la regola dell’ostruzionismo non si tocca, e poiché solo modificando l’ostruzionismo si può approvare la riforma elettorale, l’ha anche lei di fatto affossata.
In conclusione: non è stata solo l’intransigenza repubblicana a bloccare le riforme di Biden; sono state anche e soprattutto le divisioni nel Partito democratico, divisioni e differenze ideologiche che nessuna disciplina di partito è in grado di colmare.
Cause istituzionali
Nelle elezioni del 2020 i democratici hanno ottenuto una maggioranza del voto popolare che però, a causa dei collegi elettorali uninominali, non si è tradotta in una solida maggioranza nei due rami del parlamento. Ci sono altre cause della distorsione del voto popolare, come il “Collegio elettorale” per l’elezione del presidente o il fatto che nel senato i piccoli stati rurali del sud e del Midwest (tradizionalmente repubblicani) sono sovrarappresentati. Ma, a costituzione vigente, la causa principale della paralisi legislativa sta nell’ostruzionismo.
Poiché ogni legge deve essere approvata in identico testo dai due rami del parlamento, il fatto che al Senato occorra una maggioranza dei tre quinti per superare il blocco dell’opposizione (maggioranza che nessuno dei due partiti ha mai avuto negli ultimi decenni) fa sì che le proposte approvate alla Camera muoiano quasi sempre al Senato. E, a causa della rigida divisione dei poteri, il presidente non può farci nulla.
Cause sociali
Dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, molti pensarono che lo shock avrebbe prodotto un miglioramento nei rapporti tra maggioranza e opposizione. (Dopotutto anche i deputati repubblicani erano dovuti fuggire nei sotterranei per salvarsi dalla folla inferocita). Si pensava che Donald Trump, visto da tutti come l’istigatore della sommossa, si sarebbe fatto da parte. Così non è stato, né per Trump, più attivo che mai dal suo pacchiano ritiro di Mar-o-Lago, né per i parlamentari, né per gli elettori.
Al contrario, le contrapposizioni si sono fatte sempre più virulente tra i due schieramenti politici. Qualunque questione è dominata da una incolmabile frattura valoriale: sulla diffusione delle armi, sull’aborto, sui diritti delle minoranze razziali, sull’assistenza sanitaria, sugli aiuti ai bisognosi; perfino, come ha rivelato un recente sondaggio, sull’uso della violenza come strumento di lotta politica.
Alla radice delle disfunzioni della presidenza Biden c’è quindi il crollo del senso di comune appartenenza al Paese, e l’affermarsi dell’idea che il tuo avversario politico è un nemico da abbattere, con ogni mezzo.
La quarta e ultima causa
Ha a che fare con l’uomo Biden e con i suoi limiti personali. Ora, non c’è dubbio che, per carattere e storia politica, Biden non sia uno scattante puledro di razza, un decisionista; quanto piuttosto un onesto e affidabile cavallo da tiro adatto alle lunghe distanze. Ma è anche un uomo anziano che, nell’anno trascorso, ha mostrato, con ripetute gaffe evidentemente dovute a vuoti di mente, tutti i segni dell’età (ottant’anni a novembre). L’ultima in ordine di tempo è stata quando in conferenza stampa ha fatto capire che di fronte ad una “limitata incursione” della Russia in Ucraina gli Stati Uniti non avrebbero reagito con forza (dichiarazione poi corretta il giorno dopo).
Gli si rimprovera di non essere stato sufficientemente presente nella battaglia politica (le sue interviste alle reti nazionali si contano sulle dita di una mano; idem per i comizi). Gli si rimprovera anche, in qualità di capo dell’esecutivo, di non essere intervenuto con decisione di fronte alle crisi provocate – o non adeguatamente affrontate – dai membri del suo governo: Afghanistan, immigrati, stagione degli uragani, aumento dei prezzi, pandemia… magari licenziando qualche alto funzionario.
Nella conferenza stampa a conclusione di un anno di mandato, Biden ha mostrato di essere consapevole degli insuccessi dell’amministrazione e dei propri limiti personali. Ha promesso maggiore attivismo dicendo che fino adesso aveva avuto “molte tranquille conversazioni” per convincere gli avversari, ma che, d’ora in poi, non sarebbe stato più “tranquillo”. Ha anche riconosciuto che è stato troppo chiuso nella Casa Bianca e in futuro si rivolgerà di più al popolo americano. Se riuscirà a invertire la rotta di qui alle elezioni di novembre, che – con la probabile vittoria dei repubblicani – potrebbero renderlo un’anatra zoppa per il resto del suo mandato, nessuno può dirlo.
Nel frattempo altre nubi si stanno accumulando all’orizzonte, nubi di contrasti internazionali e perfino di guerra. C’è solo da augurarsi che la ragionevolezza e la capacità di dialogo del vecchio e saggio “cavallo da tiro”, cresciuto nella prudente logica della guerra fredda, prevalga sullo spirito di contrapposizione dei suoi più giovani consiglieri, sia in politica interna sia soprattutto in politica estera. E, dio non voglia, sul “cavallo pazzo” che in questo momento scalpita nelle scuderie, in attesa della corsa di rivincita del 2024.