Ahi, com’è difficile dare una giusta dimensione ai “fatti”! Nel caso del rimpatrio di Alma Shalabayeva la difficoltà si fa tostissima perché nasce in un Paese lontanissimo come il Kazakistan, enorme, vastissimo con pochi abitanti e tantissimo uranio, e giunge fin qui da noi dove si trasforma in un pasticciaccio.
La faccenda gira intorno a questo interrogativo: la signora fu “deportata”, dunque costretta forzatamente a tornare nel suo Paese insieme alla figlioletta Alua, oppure no? Fu un caso di extraordinary rendition, come quello dell’imam egiziano Abu Omar, oppure no?
La vicenda è di nuovo d’attualità, perché ieri a Perugia si è aperto il processo d’appello contro i presunti responsabili del rimpatrio della moglie del “dissidente” kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa dall’Italia nella primavera del 2013 con la figlia: tra gli imputati, due funzionari di gran peso, Renato Cortese, l’uomo che mise le manette al capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano – ieri a Perugia si è recato personalmente il presidente della commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, Claudio Fava, per portargli la sua solidarietà – e Maurizio Improta, all’epoca rispettivamente capo della Squadra mobile di Roma e dell’Ufficio immigrazione, condannati in primo grado a cinque anni (l’accusa ne aveva chiesti meno della metà) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, insieme alla giudice Stefania Levore che convalidò l’espulsione (due anni e sei mesi rispetto alla richiesta di un anno, per lei si profila la prescrizione).
Per i giudici di primo grado fu un “sequestro di persona” di “eccezionale gravità”, “un rapimento di Stato”: parole grosse per un caso che all’epoca destò, giustamente, la preoccupazione delle forze politiche e di tante associazioni che si battono per i diritti civili. Vedremo se le accuse reggeranno, se verrà definitivamente provato che quei funzionari sono davvero consapevoli di aver rimpatriato Alma, la moglie di un dissidente. Ma suo marito era davvero un dissidente?
Alma Shalabayeva e la figlia furono prelevate dalla polizia in una villa di Casalpalocco (Roma) nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013. Le forze dell’ordine cercavano il marito, ricercato a livello internazionale per truffa e associazione criminale, ma la donna venne trovata con un passaporto falso. Firmata l’espulsione, di fretta rimpatriate – e poi giù la bufera politica che vide in primo piano l’allora ministro dell’Interno Alfano. La donna venne accolta da militari armati in patria, non fu comunque arrestata, ma lì suo marito non era un uomo in gloria: era stato potentissimo, già ministro dell’energia, ma poi era stato beccato con le mani nel sacco. Scappò, infatti, nel 2009, quando la Bta Bank, la banca della quale era presidente, era stata trovata con un buco di quindici miliardi di dollari, soldi che si ritiene Ablyazov abbia intascato personalmente danneggiando migliaia di piccoli risparmiatori.
Le difese dei poliziotti accusati insistono su un punto chiave: madre e figlia avrebbero dovuto godere delle tutele di rifugiato nel Regno Unito, di cui allora avrebbe beneficiato Ablyazov, status che però non sarebbe mai stato inserito nelle banche dati dell’Interpol, e quindi impossibile da conoscere da parte della polizia consultando quegli archivi informatici.
A questo proposito, circa un anno fa, in un articolo di “L’Espresso”, vennero citate diverse sentenze inglesi su Ablyazov, mai menzionate nelle motivazioni della sentenza di primo grado, a cominciare da quella dell’Alta Corte di Londra che fa riferimento alla banca statale kazaka Bta che accusa Ablyazov di essersi appropriato dei dollari facendoli sparire nei paradisi fiscali: Ablyazov nega, dice “L’Espresso”, il giudice lo accusa di aver mentito in udienza e lo condanna per “oltraggio alla corte” a ventidue mesi di reclusione. Il verdetto costa all’ex potente la carta di rifugiato ottenuta nel 2011: per Londra Ablyazov non va più accolto come rifugiato ma arrestato. Lui scappa alla vigilia della decisione. Il verdetto su Ablyazov fa partire anche la procedura amministrativa di revoca dello status di rifugiato, formalizzata nel 2014.
Nel processo italiano, iniziato nel 2018 e chiuso nel 2020, si parla però solo del permesso ottenuto nel 2011. E i poliziotti vengono obbligati a risarcire anche i “danni morali” subiti dai familiari di Alma Shalabayeva, compreso il marito latitante. Nella patria kazaka le cose sono dunque difficili per la potente coppia caduta in disgrazia quando al potere c’è Nazerbayev, da poco scalzato da Tokaiev – ricorderete le recenti rivolte capeggiate, a suo dire, dallo stesso Ablyazov. L’ex banchiere, portandosi via un tesoro enorme, si vide costretto a rinunciare al suo potere, e alle battute di caccia durante le quali faceva impazzire di divertimenti i suoi invitati.
Nell’udienza di ieri la Corte, dopo oltre tre ore di camera di consiglio, ha accolto la richiesta delle difese di chiamare a testimoniare in aula l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, il pm Eugenio Albamonte e l’allora procuratore aggiunto Nello Rossi, respinta la richiesta di una delle difese di sentire l’ex consigliere del Csm Luca Palamara – quel nome a Perugia scatena l’orticaria, e come non comprenderlo… Non accolta dal Collegio neanche la richiesta delle difese di acquisire gli atti parlamentari sulla vicenda: sono state fatte diverse interrogazioni, l’ultima firmata dal deputato del Pd Carmelo Miceli alla quale ha risposto il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni: eh sì, perché il Viminale, e per delega anche i ministeri della Giustizia e degli Esteri, hanno fornito qualche spiegazione proprio pochi giorni fa: “il prefetto di Roma” – scrive il Viminale – “ha precisato che nell’intervallo temporale intercorso tra la notifica all’interessata del decreto di espulsione (29 maggio 2013) e la relativa esecuzione (31 maggio 2013) la signora Shalabayeva non ha mai fornito le sue esatte generalità, continuando a dichiarare di chiamarsi Alma Ayan e di godere dello status diplomatico della Repubblica Centroafricana”, ma il passaporto esibito presentava “evidenti segni di contraffazione ed era privo del necessario visto d’ingresso e del relativo timbro uniforme Schengen apposto dalla polizia di frontiera”.
Il governo dunque insiste: tutto fu fatto regolarmente. Anzi, di più: il ministero accertò che la sedicente Alma Ayan, titolare del passaporto centroafricano, non beneficiava di alcuno status diplomatico consolare in Italia, né fece cenno lei stessa al suo status di rifugiata, né ai poliziotti né ai giudici. Proprio difficile stabilire la solidità dei “fatti”, soprattutto quando un Paese è pieno di risorse naturali e l’altro ne beneficia: ci fu un interesse dell’Eni a far rispedire in patria con quella solerzia la moglie del criminale Ablyazov? Non lo sappiamo, ovviamente. Intanto accontentiamoci di ascoltare le testimonianze dei magistrati romani Pignatone, Albamonte e Rossi convocati nella prossima udienza. Appuntamento il 4 aprile.