Verso la fine del 2021 almeno dieci navi cariche di gas liquefatto proveniente dal Nordamerica, originariamente destinate ai porti asiatici, sono state deviate verso l’Europa, grazie all’impennata dei prezzi che ha reso più attrattivi i mercati del vecchio continente. Sembra l’immagine di un film: è il modo in cui l’agenzia di stampa Reuters, sul suo sito, ha raccontato di recente uno degli aspetti del drammatico rialzo dei prezzi dell’energia e delle materie prime per produrla. Già nei primi giorni di gennaio la tendenza si è invertita, a quanto pare, e i comandanti hanno rimesso la prua verso l’Asia. Rimane però l’allarme: il prezzo della ripresa economica post-pandemia (o forse sarebbe più corretto dire in corso di pandemia) rischia di costare molto salato a tutti noi. Che fare? Se il “Sole 24 Ore” denuncia, usando un lessico che i vangeli associavano a Satana, la “tentazione della politica di tassare i profitti dell’energia”, ci sentiamo subito un po’ peccatori, convinti come siamo della funzione di riequilibrio sociale che l’articolo 53 della Costituzione affida al sistema tributario. Il giornale di Confindustria ricorda, con un certo allarme, la breve avventura della Robin Tax sulle rendite petrolifere, varata dall’allora ministro Giulio Tremonti e censurata qualche anno dopo dalla Corte costituzionale. Ci sembra un segnale positivo che il governo Draghi stia (pur con una certa flemma) riflettendo su questo tema: c’è la spinta dei partiti della maggioranza, e in particolare del leader leghista Matteo Salvini, a corto di “emergenza sbarchi” in questa stagione.
Tasse o finanza creativa, le idee in campo
Gli interventi in cantiere potrebbero essere di vari tipi: la “sterilizzazione” degli incassi extra che lo Stato realizza sull’Iva grazie agli aumenti delle bollette di luce e gas, e una tassa sugli extraprofitti realizzati dalle compagnie energetiche, iniziativa contro la quale i big del settore, Enel compresa, stanno facendo comunicazione e azioni lobbistiche, anche a livello europeo, fin dallo scorso autunno. Ma c’è anche la creativa trovata di una “cartolarizzazione” illustrata dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, “una misura di indebitamento per spostare una parte degli oneri a cinque o dieci anni”. Insomma, un calcio in avanti alla lattina. Sarebbe un rischio, tuttavia, coltivare l’illusione che l’esplosione dei prezzi energetici rappresenti una fiammata passeggera e che basti un ennesimo decreto governativo per risolvere il problema.
Per ora c’è comunque l’esempio della Francia, che ha già annunciato pesanti interventi, limitando al 4% l’aumento della bolletta elettrica di febbraio, rispetto al 44% previsto in base all’andamento del mercato, e imponendo al colosso Edf, ancora in larga parte di proprietà statale, l’aumento della fornitura ai concorrenti di energia prodotta da nucleare e venduta ai concorrenti a prezzo fisso. La qual cosa ha provocato anche un brusco scossone al ribasso nel valore delle azioni Edf. Il ministro Le Maire, in ogni caso, ha promesso rigidi controlli per evitare che il beneficio venga incamerato dalle altre compagnie in termini di maggiori profitti invece che dagli utenti come sconto in bolletta.
In Italia, dov’è da anni in corso il progressivo passaggio al cosiddetto “libero mercato”, l’Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente), in una recente rilevazione sull’evoluzione di questo mercato, ha spiegato che “nel settore elettrico per il cliente tipo domestico residente, nei 18 mesi analizzati (gennaio 2020 – giugno 2021) erano disponibili in media 64 offerte più convenienti della maggior tutela, pari al 4,72% delle offerte a disposizione. Di queste, 15 erano a prezzo variabile e 49 a prezzo fisso. Con riferimento invece al settore del gas, per il cliente tipo domestico erano disponibili in media 65 offerte più convenienti del servizio di tutela, pari al 9,82% delle offerte a disposizione. Di queste, 32 erano a prezzo variabile e 33 erano a prezzo fisso”. Tradotto in italiano corrente, nove offerte su dieci per il gas e diciannove su venti per l’elettricità peggiorano le condizioni per i consumatori.
La sete di gas e il boom delle esportazioni Usa
Nelle previsioni autunnali della Commissione dell’Unione europea, diffuse a novembre, si legge che “in Europa, il prezzo all’ingrosso del gas è aumentato più che in altri hub regionali (per esempio gli Usa), a causa della riduzione delle scorte dopo un inverno freddo, forniture limitate dalla Russia e una produzione eolica e idroelettrica eccezionalmente debole. Anche le forniture di gas naturale liquefatto per via marittima si sono ristrette a seguito di una crescente domanda dall’Asia”. Rimane bloccata l’apertura del gasdotto North Stream 2 fra la Russia e la Germania, formalmente per ragioni legali, più realisticamente per il suo forte significato geopolitico. E per una interessante coincidenza, nel citato articolo dell’agenzia di stampa Reuters si spiega appunto che “la domanda europea alle stelle ha portato le esportazioni statunitensi di gas naturale liquefatto a un record a dicembre”. Da qualche parte bisogna pure comprare, e al momento è in corso un braccio di ferro commerciale (con le navi cariche che appunto orientano la rotta a seconda dell’andamento dei prezzi) fra Europa e Asia per l’accaparramento delle forniture dello shale gas nordamericano, peraltro molto discusso negli Stati Uniti e in Canada per l’impatto ambientale di questo metodo estrattivo.
Il boom dei prezzi frena il Pil
Un’analisi pubblicata recentemente da Bloomberg stima che la crisi energetica, a livello europeo, “potrebbe ridurre fino all’1% il prodotto interno lordo. L’impatto varierà tra i paesi e il sostegno del governo potrebbe significare una ricaduta meno estrema”. Elaborando dati di un sondaggio commissionato dalla Commissione europea, Bloomberg prevede una contrazione della propensione al consumo delle famiglie, specialmente nell’Europa dell’Est, “dove ci sono i primi 10 Paesi in termini di quantità di spesa dei consumatori assorbita dalle bollette energetiche”.
Ma l’impatto rischia di essere pesantissimo anche da noi. A lanciare l’allarme (a parte Salvini) sono stati molti osservatori. Tra questi, il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, che ha parlato in più occasioni del rischio che, nel 2022, una famiglia italiana “a causa di questi aumenti irrazionali” possa spendere dai 700 ai 1.200 euro in più sull’anno, fra la bolletta del gas e quella dell’elettricità. Agli effetti diretti, naturalmente, si aggiungeranno quelli indiretti, perché le imprese scaricheranno inevitabilmente i maggiori costi sui prezzi al dettaglio, appesantendo ulteriormente il carico sui consumatori. Tutto questo in una fase nella quale gli indicatori sulla ripresa segnalano la fragilità del mercato del lavoro, che si indirizza – anche a causa delle scelte fatte dall’attuale governo – prevalentemente verso contratti precari e a termine; e, per altri versi, mentre si segnala il diffuso allarme per il rialzo dell’inflazione, che rischia di alimentare la riscossa dei custodi dell’ortodossia ordoliberista contro l’interventismo della Bce sui mercati finanziari e quello degli Stati a sostegno dell’economia reale e delle fasce sociali maggiormente colpite dalla crisi.
Se l’inflazione minaccia il futuro “verde”
Abbiamo ricordato all’inizio l’attivismo del leader leghista Salvini sulla questione del caro bollette. Ma il tema di come rispondere al rialzo dei prezzi dell’energia ha riaperto il dibattito più generale su come aumentare le risorse disponibili. Lo stesso Salvini e il ministro Cingolani si sono fatti portavoce del ritorno in auge (in versione moderna e sicura, come sempre in questi casi) del nucleare, che in teoria in Italia sarebbe stato archiviato definitivamente da due referendum popolari. È di pubblico dominio il dibattito europeo sull’inserimento di gas e nucleare nella “tassonomia verde”, cioè fra le fonti finanziabili perché amiche dell’ambiente. In casa nostra, è Confindustria a premere per un rinnovato slancio sulle trivellazioni. Il “Sole 24 Ore” ha ricordato recentemente che in Italia si estraggono 4 miliardi di metri cubi a fronte di un consumo di 72, in passato erano circa 20. “Nel giro di 12-15 mesi – ha spiegato il delegato all’energia dell’associazione degli industriali, Aurelio Regina – si potrebbe arrivare a una produzione di 8 miliardi di metri cubi da destinare all’industria, con un investimento di circa 2 miliardi, senza nuove perforazioni. Serve un decreto, stiamo insistendo”.
Ma è più in generale lo scenario del futuro quello che preoccupa: Isabel Schnabel, che nella cabina di comando della Banca centrale europea supervisiona le operazioni di mercato, ha lanciato un allarme che secondo alcuni osservatori potrebbe preludere al ritorno di una spinta anti-inflazionistica (a favore di un rialzo dei tassi) in Europa. “Mentre in passato – ha osservato l’economista tedesca – i prezzi dell’energia spesso sono diminuiti con la stessa rapidità con cui sono aumentati, la necessità di intensificare la lotta ai cambiamenti climatici può implicare che i prezzi dei combustibili fossili ora non solo dovranno rimanere elevati, ma anche continuare a crescere se vogliamo soddisfare gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima”. E quindi, senza la capacità di ricostituire la forza fiscale degli Stati sulle grandi ricchezze e le grandi imprese sovranazionali, chi pagherà il costo della pur necessaria transizione ecologica?