Durante l’epoca classica, il mondo ha parlato prima greco e poi latino. Nel Novecento l’inglese è diventata lingua globale. Oggi non sappiamo dire se resisterà al cinese. Nel frattempo buona parte della comunicazione politica ed economica è stata egemonizzata da termini di matrice anglo-americana. Succede quindi di frequente, nel dibattito pubblico, di imbattersi in parole strane che sottendono significati criptici. È il caso della gig economy, fenomeno relativamente recente per noi italiani, ma in fortissima crescita.
Solo per una sera
L’origine del termine gig è bizzarra. Pare si usasse negli Stati Uniti all’inizio del Novecento nel mondo dei musicisti jazz per indicare, in gergo, l’ingaggio per una sera. Si tratterebbe dunque di uno stiracchiamento della parola engagement. Oggi il jazz non c’entra più nulla con l’uso corrente di una nozione che indica, piuttosto, l’economia prodotta dallo scambio di prestazioni di lavoratori autonomi, che mettono a disposizione di aziende private i loro servizi. In teoria, dovrebbe essere uno scambio alla pari, in quell’area fantastica della libertà di scelta. Io scelgo di lavorare quando voglio, l’impresa mi assume (a tempo molto determinato) quando le mie prestazioni sono funzionali alla produzione o all’erogazione di servizi.
Ma questa scena è solo immaginaria, perché nella realtà i concreti “rapporti di produzione” (come direbbe Marx) sono determinati sempre più spesso da piattaforme, siti o app (altro termine gergale) che funzionano sulla base di algoritmi. Ci sarebbe da spiegare anche questo termine, ma basti dire che l’algoritmo è un concetto fondamentale della “calcolabilità” e programmazione degli eventi. Per gli informatici l’algoritmo è un concetto cardine anche nella fase di programmazione dello sviluppo di un software. In questo caso, l’algoritmo sostituisce il capo reparto e il capo del personale, organizzando sulla base di operazione logiche e matematiche tutta la programmazione del lavoro.
Si abbattono i costi
Il primo risultato dell’introduzione dell’economia dell’algoritmo è stato l’abbattimento di ogni costo per alcuni tipi di servizi, attraverso una razionalizzazione del mercato che fino a ora non era concepibile, anche perché si vengono a cancellare quasi tutti gli altri fattori che determinano il rapporto di lavoro. Gli addetti alla gig economy vanno quindi ad allargare quell’area in cui i lavoratori sono formalmente autonomi, ma di fatto non hanno nessuna indipendenza economica e nessuna forza contrattuale. Le condizioni di lavoro (quelle dei fattorini, per esempio) sono ai gradini più bassi della scala. Da un’inchiesta della magistratura di Milano, sono emerse, per esempio, vere e proprie forme di caporalato nei confronti di Uber Eats che faceva lavorare i rider a tre euro all’ora. La stessa società, in Inghilterra, è stata obbligata ad assumere gli autisti come dipendenti, interrompendo così il falso rapporto da lavoro autonomo.
Lavoro, non lavoretto
In Italia la gig economy, i cosiddetti lavoretti con cui arrotondare, riguarda solo una minoranza dei lavoratori delle piattaforme digitali. Per l’80,3% di questi, infatti, è una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale, mentre per circa la metà (48,1%, pari a 274mila soggetti) rappresenta l’attività principale. Uno su due sceglie di lavorare per le piattaforme in mancanza di alternative occupazionali (50,7%). Oltre il 31% non ha un contratto scritto, e solo l’11% ha un contratto di lavoro dipendente. Si tratta, dunque, di un lavoro povero, fragile. In altri termini, di una nuova precarietà digitale.
È quanto emerge da una ricerca presentata all’inizio dell’anno da Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp, ex Isfol). Lo studio, che ha coinvolto oltre 45mila intervistati, offre un quadro completo delle caratteristiche dei lavoratori delle piattaforme in Italia, in tutte le sue diverse manifestazioni. Secondo Sebastiano Fadda, presidente Inapp, applicando una recente direttiva europea, fino a cinque milioni e mezzo di lavoratori digitali in Europa potrebbero essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamenti (tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale) finora negati. Queste garanzie consentirebbero non solo di bilanciare in maniera più equa l’interesse dei fruitori di tali servizi con il diritto a condizioni di lavoro dignitose, ma anche di assicurare condizioni concorrenziali più sane.
Quanti sono i “platform workers”?
Secondo lo studio Inapp, attualmente i lavoratori delle piattaforme digitali sono 570.521. Non si tratta solo dei più famosi rider, ma di un insieme eterogeneo di attività che vanno dalla consegna di pacchi o pasti a domicilio allo svolgimento di compiti online (traduzioni, programmi informatici, riconoscimento immagini). Rappresentano l’1,3% della popolazione di 18-74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite internet. Ai platform workers, infatti, vanno aggiunti coloro che vendono prodotti (piattaforme pubblicitarie) o affittano beni di proprietà (piattaforme di prodotto) per un totale di 2.228.427 individui (il 5,2% della popolazione tra i 18 e i 74 anni) che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali tra il 2020 e il 2021.
La maggioranza dei lavoratori delle piattaforme sono maschi (i tre quarti). Sette su dieci hanno un’età compresa tra 30 e 49 anni, con i giovani tra 18 e 29 anni concentrati soprattutto nella categoria dei lavoratori occasionali. Il titolo di studio non è particolarmente diverso rispetto a quella della popolazione generale. Chi lavora tramite piattaforme come attività principale presenta livelli di istruzione più elevati (dal diploma in su), mentre chi lo fa occasionalmente presenta titoli di studio più bassi. Il 45,1% dei lavoratori delle piattaforme appartiene alla tipologia “coppia con figli” ma la quota sale al 59,1% nel caso di occupati che considerano quella delle piattaforme un’attività secondaria. Al contrario, le persone che occasionalmente collaborano con una piattaforma sono invece più frequentemente single (37,9%).
Caporali digitali
I diritti sindacali in questo settore sono per ora un miraggio. Sempre dallo studio Inapp, risulta che tre lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto e che il 26% dei lavoratori non gestisce direttamente l’account di lavoro per accedere alla piattaforma e che, nel 13% dei casi, il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno. Inoltre, si segnala che il 72% ha dovuto sottoporsi a un test valutativo per poter lavorare con la piattaforma. E qui entra in gioco l’algoritmo, perché il sistema più diffuso per la valutazione del lavoro svolto è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine (59,2% dei casi) seguito dal giudizio dei clienti (42,1%). Questo conferma la centralità del sistema del cottimo orario nella valutazione effettuata dagli algoritmi sui lavoratori e nell’organizzazione produttiva della piattaforma, e suggerisce come per molti lavoratori delle piattaforme non si tratti di lavoro autonomo, ma di lavoro dipendente. A una valutazione negativa o a una mancata disponibilità nello svolgimento degli incarichi corrisponde, in quattro casi su dieci, un peggioramento del tipo di incarichi assegnati, con la riduzione nelle occasioni di lavoro più redditizie rispetto al complesso degli incarichi (40,7%). Inoltre, la valutazione negativa determina per il 4,3% dei lavoratori il mancato pagamento della prestazione svolta, fino ad arrivare nel 2,8% dei casi alla disconnessione forzata dalla piattaforma, una sorta di licenziamento occulto.
E poi ci sono i “working poors”
Se quello dei lavoratori delle piattaforme digitali è uno degli aspetti di novità dei rapidissimi processi di trasformazione del lavoro, non dobbiamo trascurare anche il fenomeno dell’impoverimento progressivo di una parte della classe lavoratrice. Se n’è accorto anche il governo Draghi che, tramite il suo ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha messo in piedi una commissione di studio formata da vari esperti della materia. L’intento è quello di capire come mai una persona che lavora, nonostante un contratto (magari a tempo determinato), può rischiare di cadere sotto la soglia di povertà.
Si scopre quindi che in Italia un quarto dei lavoratori totali ha una retribuzione individuale bassa, cioè, inferiore al 60% della mediana. Almeno un lavoratore su dieci (ma ci sono stime ancora più pessimistiche) si trova in situazione di povertà, cioè vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana (11.500 euro in base ai valori del 2018). Si tratta di un fenomeno italiano, ma anche europeo, pur se nel nostro Paese i livelli di rischio di scivolare in situazioni d’indigenza sembrano più alti che altrove. “Stando agli ultimi dati elaborati da Eurostat nel 2019 – ha scritto Paolo Baroni su ‘La Stampa’ – l’11,8% dei lavoratori italiani era povero, contro una media europea del 9,2%. Dalle varie analisi realizzate nell’ultimo periodo anche alla luce degli effetti devastanti della pandemia, risulta che tra i settori più esposti ci sono gli alberghi e i ristoranti, con il 64,5% di addetti a rischio bassa retribuzione annuale, seguiti da altri servizi”.
Facendo riferimento a una definizione dell’Istat, che classifica come lavoratore povero colui che riceve una retribuzione inferiore ai nove euro l’ora, si possono stimare (sempre stando alle classificazioni statistiche), circa 2,9 milioni di working poors. Il 35% di questi sarebbe nella classe 15-29 anni; 47,4% nella classe 30-49 anni; 79% operai, 53,3% uomini. Fondamentale, per la classificazione di lavoratore povero, è il calcolo delle giornate lavorate. Più in generale, tra gli operai ci sono 8,6 milioni persone che lavorano per un totale di poco più di 200 giornate l’anno, con una retribuzione media annua di 14.762 euro. Ci sono poi 629mila apprendisti che lavorano 203 giorni l’anno per 11.709 euro. Nella sfera del lavoro povero – spiega Andrea Toma, ricercatore del Censis – si possono inquadrare praticamente quasi tutti i lavoratori precari, che devono essere sommati al lavoro irregolare (circa tre milioni di persone), una parte dei lavoratori dei settori agricoli e della vasta area del lavoro domestico (921mila). Questa situazione pone l’Italia ai primi posti in Europa per i livelli di working poors. Gli occupati a rischio povertà 2010-2019, nella Unione europea, si sono attestati al 9,2%; in Germania all’8,0%; in Francia al 7,4%. Noi siamo già all’11,8%.