A differenza dell’Italia, la vita politica francese è stata scossa negli ultimi anni da agitazioni sociali di notevole portata, delle quali l’aspetto senza dubbio più rilevante, anche per la sua capacità di durata, è stato il movimento dei “gilet gialli”. Non c’è stata però alcuna osmosi tra l’intensità delle proteste – che a tratti hanno assunto la virulenza della sommossa – e i partiti di sinistra. Non parliamo del Partito socialista che, dopo il disastro della presidenza Hollande, è ancora lì a leccarsi le ferite, e guarda soprattutto ai ceti medi urbani (i cosiddetti bobos), mentre lì si trattava di un composito mondo a prevalenza “bianca” (questo va sottolineato) e rurale, essendo i “gilet gialli” anzitutto figli del rancore della provincia contro la capitale Parigi; ma neppure il residuale Partito comunista e i più pimpanti “populisti di sinistra” della France Insoumise si sono giovati dell’onda “gialla”, tant’è che entrambi sono oggi al palo nei sondaggi. È la destra – se non l’estrema destra, con le sue due candidature – che al momento è favorita per il passaggio al secondo turno nelle elezioni presidenziali dell’aprile prossimo, per tacere del forte astensionismo che tutti gli osservatori si aspettano.
In questa situazione, senza nulla di più che un patto elettorale minimalista, la sinistra avrebbe dovuto unirsi per poter portare una propria candidatura al ballottaggio. Non perché vincente, ma proprio perché perdente – e se non altro al fine di evitare la bruttura “repubblicana” di un possibile arrivo in finale di un Nosferatu di estrema destra come Zemmour. Ciò tuttavia non è possibile anzitutto per la posizione settaria dell’ex trotzkista ed ex socialista Mélenchon – riciclatosi come leader di una specie di Podemos francese che non esiste granché nella realtà –, ma, incredibilmente, neppure per i verdi e il Partito socialista, pur vicinissimi tra loro su molti temi, che si preparano a correre separati, mentre la “radicale di sinistra”, Christiane Taubira, ancora esita a lanciare una propria candidatura unitaria, che appare ormai fuori tempo massimo.
Di che cosa è specchio questa rovina annunciata della sinistra francese? Molto semplicemente di una crisi europea più generale, in cui sono le tecnocrazie – come quella rappresentata dal presidente uscente Macron – ad avere la meglio sull’iniziativa politica. Nell’articolo qui a fianco, Sandro De Toni, dal suo punto di vista, dice dei “quarant’anni pietosi” di cui la socialdemocrazia, intesa in senso ampio, sarebbe responsabile in Europa. Ma è troppo facile additare in un Jacques Delors – socialista francese che fu alla testa della Commissione europea – un colpevole: perché l’idea di Europa che aveva in mente uno come lui era sì quella del libero mercato, ma anche quella delle regole che avrebbero dovuto guidarlo. Le delocalizzazioni, per riprendere un esempio fatto da De Toni, sarebbero state ben poca cosa, almeno nello spazio europeo, se fosse andato avanti un progetto di integrazione in grado di armonizzare le politiche fiscali e industriali dei diversi Paesi. È insomma di un processo bloccato che hanno potuto pascersi le élite e i gruppi tecnocratici, garanti dello status quo, come pure quel loro falso opposto che sono i populismi, soprattutto quelli di destra e, ormai sempre più chiaramente, di estrema destra.
Il ragionamento da fare per comprendere il perché non ci sia osmosi tra la maggior parte delle proteste di piazza, tra le forme odierne del conflitto sociale che non sono certo più quelle “classiche” del movimento operaio, e i partiti di sinistra comunque intesi, deve prendere le mosse dal riconoscimento che questi hanno perso qualsiasi capacità di proporre un orizzonte programmatico-ideale: e ciò sia per quanto concerne il superamento di un capitalismo – oggi sempre più chiaramente all’origine di una crisi come quella climatica, o impossibilitato a reagire con efficacia a una catastrofe come quella pandemica – sia riguardo a un obiettivo più ravvicinato, come sarebbe quello di un federalismo europeo al tempo stesso politico e sociale.