Il 13 dicembre scorso si è tenuto, presso il ministero dello Sviluppo economico, l’ultimo incontro riguardante l’ex Ilva, alla presenza dei ministri Giorgetti e Orlando, di alcuni funzionari del ministero della Transizione ecologica e del ministero per il Sud, oltre alle istituzioni locali (Regione Puglia e Regione Liguria), all’azienda e alle organizzazioni sindacali. Nell’incontro ci è stato comunicato – prima dal presidente di Acciaierie d’Italia e poi dall’amministratore delegato – il piano di riconversione degli impianti del sito siderurgico di Taranto, il quale, nel corso di almeno dieci anni secondo il tempo stimato, dovrebbe passare gradualmente dal ciclo integrale odierno a un ciclo ibrido con forni elettrici e, nell’ultimo quinquennio, all’utilizzo esclusivo dell’idrogeno per produrre acciaio.
Al netto dei problemi impiantistici e di approvvigionamento energetico (i costi del gas e dell’energia elettrica rappresentano un serio problema) che questo percorso futuribile e complicato rappresenta, restano sul campo le tre clausole sospensive che bisognerà risolvere entro maggio 2022: 1) accordo sindacale sugli organici; 2) nuova Autorizzazione integrata ambientale; 3) dissequestro degli impianti da parte della magistratura. Se riguardo ai primi due punti vi è la possibilità di raggiungere gli obiettivi proposti, almeno su base teorica, francamente risulta un po’ complicato capire come convincere la magistratura.
Nel frattempo in fabbrica si procede ai minimi di produzione, in quanto Afo 4 è fermo per problemi impiantistici (crogiolo perforato) e dovrebbe ripartire non prima di fine gennaio 2022; e sono fermi anche gli impianti a valle (ACC 1, PLA2 ecc.). Sui lavoratori si abbattono ulteriori tredici settimane di cassa integrazione, mentre sui lavoratori delle ditte dell’appalto si ripercuotono i soliti ritardi nelle retribuzioni, in quanto la committente Acciaierie d’Italia – causa problemi di finanza e di accesso al credito – non paga nei termini contrattuali le imprese stesse.
Ai problemi di liquidità e finanziari sono da ricondurre le ultime scelte fatte dal governo Draghi con lo spostamento di risorse (575 milioni di euro, contenuti nel “mille proroghe”) dai fondi destinati alle bonifiche di competenza di Ilva in amministrazione straordinaria di alcune parti di stabilimento non passate sotto la gestione iniziale di ArcelorMittal, verso Acciaierie d’Italia per il processo di decarbonizzazione. È di palmare evidenza il fatto che si debba intendere tale operazione (peraltro maldestra) come un tentativo di supportare l’azienda in questo momento economicamente difficile.
La Fiom-Cgil, già nel 2018, aveva denunciato questa condizione che favoriva di fatto la multinazionale a discapito del territorio ionico. Nello specifico, le bonifiche previste per il territorio ionico dovevano essere realizzate con parte delle risorse destinate agli investimenti ambientali non direttamente ascrivibili all’affittuario. Infatti, tra le tante prescrizioni ambientali previste dal decreto del presidente del Consiglio del 29 settembre 2017 vi è la copertura dei parchi minerali completamente realizzata con i fondi in capo all’amministrazione straordinaria, attraverso il cosiddetto “patrimonio destinato”, così come previsto dall’art. 20 del contratto di aggiudicazione del giugno 2017.
È del tutto evidente che il governo Draghi, riguardo alla vertenza ex Ilva, continua a non avere un’idea precisa sul futuro produttivo di Taranto; e soprattutto continua a fare annunci su importanti investimenti per il processo di transizione ecologica senza coperture finanziarie. È giunto il momento di fare chiarezza sulla vertenza, sulle bonifiche e sulla riqualificazione del territorio ionico, costretto a pagare in termini sia ambientali sia occupazionali. Il governo convochi le parti sociali e apra a un confronto serio e di merito per giungere a una vera transizione ecologica, con la massima partecipazione dei lavoratori e dei cittadini della terra ionica.
*Segretario generale Fiom-Cgil di Taranto