Nel novembre del 1972, a supporto della mobilitazione dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto di lavoro, il Pci torinese, guidato da Adalberto Minucci, tenne un convegno in cui fu lanciato lo slogan “il nuovo modo di fare l’automobile”. Si intendeva dare forma a un’idea del controllo operaio che arrivasse a condizionare l’architettura produttiva della Fiat, introducendo elementi di co-determinazione del ciclo industriale. In realtà quella visione non andò lontano. Negli anni a seguire gli operai strapparono diritti rilevanti nell’informazione e contrattazione di aspetti decisivi della strategia dell’impresa – la cosiddetta prima parte dei contratti –, che però non cambiarono sostanzialmente il regime di comando in fabbrica.
Oggi quella suggestione viene rilanciata direttamente dal mondo imprenditoriale, e più esplicitamente dalle componenti digitali di questo mondo che stanno ripensando radicalmente l’idea stessa di produzione industriale e degli oggetti prodotti. L’intesa annunciata dal gruppo Stellantis con Amazon, i piani della Sony nel campo della mobilità, e ancora più esplicitamente l’intero progetto Tesla di Elon Musk, stanno riprogettando il concetto di automobile e soprattutto di guida individuale.
Sullo sfondo, l’obiettivo è la conduzione senza pilota di ogni veicolo, per rendere la mobilità un sistema “virale”, un vero grafo programmato nella movimentazione delle particelle. Il traffico diventa un sistema epidemiologico, in cui proprio la dinamica dei virus – con le combinazioni e le integrazioni che abbiamo imparato terribilmente a conoscere in questi mesi – indica quale natura assumerà il sistema dei pulviscolari spostamenti punto a punto.
È questo “salto di genere” che oggi viene avviato con i processi di convergenza fra i sistemi di memorie e di intelligenze artificiali e i costruttori di automobili. Una specie di spillover industriale, in cui una logica finora estranea ed esterna al modo di produrre l’automobile si insedia al centro del cervello sociale che guida sia l’offerta sia la domanda di mobilità, e muta radicalmente forma e consistenza degli oggetti e degli utenti.
Si compie qui uno stadio decisivo di un percorso iniziato almeno settant’anni fa, già negli anni Cinquanta, con le prime riflessioni sul postfordismo che la destra americana aveva avviato sulla spinta di un fondamentale saggio, sempre ignorato nel dibattito politico italiano, quale quello di Vannuvar Bush, pubblicato nel 1945 su “Atlantic Review”, e intitolato As We May Think, in cui si profetizzava la sostituzione del sapere al lavoro come nuova composizione del capitale per disattivare la pressione che veniva dal blocco sovietico. Negli anni Sessanta l’Italia – contrariamente a quanto pensava il Pci, e soprattutto la destra comunista ispirata da Giorgio Amendola – fu un laboratorio di innovazioni determinanti nel mondo industriale, che si concretizzarono con le sperimentazioni elettronucleari di Felice Ippolito, lo sviluppo della chimica fine, che valse a Giulio Natta il Nobel nel 1963 per l’invenzione della plastica, il primo gabinetto di genetica applicata di Adriano Buzzati Traverso a Napoli, l’agenzia spaziale del comandante Broglio, e soprattutto con la straordinaria e geniale espansione dell’Olivetti che progettava, proprio nei primi anni Sessanta, il primo computer da tavolo con la mitica macchina Programma 101.
In quegli anni una piccola ma preveggente comunità politica, quale fu quella dei “Quaderni Rossi”, contaminando la politica con la sociologia, a dispetto del plumbeo ideologismo storicista della retorica comunista, analizzava i prodromi dell’evoluzione della produzione industriale. Romano Alquati, un geniale ricercatore che elaborò il metodo della con-ricerca per coinvolgere i lavoratori Olivetti, così scriveva nel lontano 1963: “L’informazione è l’essenziale della forza lavoro, è ciò che l’operaio attraverso il capitale costante trasmette ai mezzi di produzione sulla base di valutazioni, misurazioni, elaborazioni per operare nell’oggetto di lavoro tutti quei mutamenti della sua forma che gli danno il valore d’uso richiesto”. Siamo nelle fasi iniziali, in cui il ciclo produttivo incorpora elementi di intelligenza trasformando oggetto e soggetto della produzione. Oggi, a distanza di sessant’anni, nella nuova catena del valore industriale, quelle funzioni di valutazione, misurazione ed elaborazione – che secondo Alquati intermediavano la relazione fra l’uomo e la macchina – sono completamente automatizzate: la macchina ha incorporato l’uomo, rovesciando la minaccia che documentavano i “Quaderni Rossi”.
L’accordo fra Stellantis e Amazon sposta dalla fabbricazione alle capacità di memoria e intelligenza automatica del gruppo di Bezos il valore aggiunto, completando il processo di transustanziazione della tecnica industriale rispetto al lavoro, che ancora Alquati verificava nella sua con-ricerca quando scriveva: “La cibernetica ricompone globalmente e organicamente le funzioni dell’operaio complessivo polverizzate nelle microdecisioni individuali: il bit salda l’atomo operaio alle cifre del piano”. Esattamente così è accaduto.
Ma l’automatizzazione non trasforma solo il processo di produzione, trasforma il prodotto: l’auto non è più libertà individuale concentrata, come diceva Henry Ford, ma diventa uno snodo di una pianificazione di big data completamente automatizzata, in cui il trasporto è un servizio di cui noi usufruiamo, senza alcun coinvolgimento personale nella proprietà o gestione del veicolo che ci trasporta. Nei prossimi mesi, entro il 2022, nelle città italiane le merci saranno consegnate da furgoni senza autista, che incroceranno i materiali da consegnare, mentre rimangono in permanente movimento. A Fiumicino, entro il 2024, saranno disponibili i primi droni-taxi per il trasporto passeggeri. La fabbrica diverrà sempre più un sistema completamente robotizzato, in cui il flusso dei materiali reali saranno validati, avvalorati e impreziositi da dotazioni numeriche, che assicureranno a quegli oggetti intelligenza memoria e dimestichezza, prescindendo completamente da ogni contaminazione umana, sia nella fase di progettazione sia in quella di produzione o di esercizio.
In questo scenario da Matrix la politica sarà sempre più centrale. Ogni passaggio nei nuovi cicli neurali sarà costantemente informato da codici etici e valoriali, che dovranno essere socialmente negoziati e validati. Un furgone automatico deve avere un corredo di priorità e di modelli sociali in base a cui muoversi, così come gli algoritmi che gestiranno l’intera pianta organica di una mobilità intelligente devono poter essere compatibili con il senso comune della città, così come lo erano i servizi pubblici che nel secolo scorso distinguevano Bologna da Los Angeles.
Ma quale politica potrà ambiziosamente misurarsi con questa escalation della mobilità? Quale sindacato potrà contrattare questo nuovo modo di fare l’automobile? Quale partito potrà confrontarsi con la governance di città automatiche? Sono le domande che ancora oggi sembrano astratte e lunari, mentre le risposte sono già sotto i nostri occhi, e ci dicono che qualcuno continua a determinare as we may think, com’è accaduto nel 1945.