Mentre migliaia di posti di lavoro ballano e le aziende (soprattutto multinazionali) continuano a fare il bello e il cattivo tempo sui mercati internazionali, la politica balbetta e non riesce a produrre neppure provvedimenti tampone. Così la montagna ha partorito il topolino. Stiamo parlando di quella che avrebbe dovuto essere la prima legge anti-delocalizzazioni in Italia, e che invece si è svuotata in corso d’opera ed è finita nel calderone della legge di Bilancio, che sta per essere varata con il voto di fiducia. Intanto il quadro generale delle crisi industriali (come testimonia uno studio della Cgil) diventa “impressionante”. Il decreto sulle delocalizzazioni – aveva spiegato il segretario confederale della Cgil, Emilio Miceli, che ha la delega alle crisi e alle politiche industriali – avrebbe dovuto tradursi in un intervento prima di tutto sulle crisi in corso, altrimenti “non avrebbe quei requisiti di vera urgenza di cui invece c’è assoluto bisogno”.
Invece stanno passando delle regole che tentano di ammorbidire l’impatto sociale delle crisi industriali e di evitare comportamenti selvaggi come il licenziamento via WhatsApp. Una delle norme prevede, per esempio, che i datori di lavoro che impiegano più di 250 dipendenti e che intendano procedere alla chiusura di una sede, con minimo 50 licenziamenti, dovranno, almeno novanta giorni prima, comunicare per iscritto l’avvio della procedura ai sindacati, alle Regioni interessate, al ministero del Lavoro, al ministero dello Sviluppo economico e all’Anpal (l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro). Dovranno poi elaborare un piano della durata massima di dodici mesi per limitare le ricadute occupazionali ed economiche della chiusura. La procedura si dovrebbe concludere con l’accordo tra le parti. Sono previste anche sanzioni se l’impresa è inadempiente rispetto agli impegni assunti o ai tempi e alle modalità di attuazione del piano.
Ma anche se i provvedimenti pensati per bloccare le delocalizzazioni si sono ammorbiditi durante il percorso politico, a causa delle spinte dei partiti moderati e di destra, c’è una parte del capitale industriale italiano che si è subito lamentata e ha cercato di introdurre vari paletti. Ecco cosa si leggeva sul “Sole 24 ore”, il giornale confindustriale: “Già da una prima lettura della bozza del decreto, emerge la necessità di chiedersi da una prospettiva costi-benefici l’effettiva utilità di un provvedimento di tale portata. Infatti, prescindendo da un’analisi dell’efficacia dissuasiva di dette misure sulle strategie di investimento delle grandi multinazionali – sulla quale appare lecito sin d’ora sollevare qualche perplessità – è presumibile che saranno ancora una volta le imprese di medie dimensioni a sortirne maggiormente gli effetti. Infatti, se per molte multinazionali la delocalizzazione di un sito produttivo rappresenta il più delle volte una strategia difficilmente ostacolabile con sanzioni anche di non scarsa rilevanza, per le imprese di medie dimensioni la chiusura di un sito produttivo riveste carattere di necessità più che di speculazione, al fine di garantire la sopravvivenza dell’impresa stessa”.
Della necessità di arrivare a un compromesso, è stato cosciente sin dall’inizio di tutta questa vicenda il ministro del Lavoro, Andrea Orlando (Pd): “Sapevo di non entrare in un governo del Fronte popolare, ma in uno nel quale era presente la destra e che si è creato per condizioni di carattere eccezionale. Sulle delocalizzazioni, oggi, c’è la possibilità di licenziare senza nemmeno farlo sapere. Non avremo risolto il problema delle delocalizzazioni, che si risolve con politiche industriali, con un ritorno del ruolo attivo dello Stato, con una politica europea del lavoro e contro il dumping salariale. Ma è questo il governo che riesce a fare queste cose? Non lo so, io ne dubito abbastanza”. Una dichiarazione rilasciata dal ministro che è stato ospite nei giorni scorsi a “Otto e mezzo” su “la7”.
Prende atto di come vanno le cose del mondo anche la sottosegretaria allo Sviluppo economico, Alessandra Todde: “Se non ci fosse stata una spinta complessiva quasi quotidiana sia del Movimento 5 Stelle sia dei sindacati, oggi non saremmo mai arrivati a parlare di questo tema. Questa norma, che abbiamo inserito in legge di bilancio, è una mediazione della mediazione, e ne siamo tutti consapevoli, ma è un punto di partenza che ha avuto il merito di far affrontare concretamente il tema all’opinione pubblica spingendo la politica a discuterne una volta per tutte”.
Più che “una mediazione della mediazione”, le norme anti-delocalizzazioni potrebbero apparire, però, come una vera e propria presa in giro. “La norma del governo sulle delocalizzazioni approvata ieri in commissione Bilancio del Senato, è solo una grande presa in giro ai danni di lavoratori. Non serve a prevenire o impedire alcuna delocalizzazione. Licenziare diventa così una mera questione di soldi e bon ton”. Lo ha affermato il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni: “Con un minimo aumento delle indennità passa il messaggio che i licenziamenti te li puoi comprare. Puoi delocalizzare come e quando vuoi, però con educazione e pagando un po’ di più per i licenziamenti. Potevano scegliere, e ascoltare lavoratori e lavoratrici. Invece hanno fatto dell’Italia terra di conquista per le multinazionali”. “Posso comprendere le compatibilità con lo schema del governo quando si è in maggioranza, ma dovrebbero esserci temi su cui segnare una differenza. Pd, 5 Stelle e Articolo uno avrebbero dovuto alzare la voce – conclude Fratoianni – per i diritti dei lavoratori e per il futuro. Un’occasione persa”.
Molto arrabbiati anche gli operai. Le tute blu di Gkn hanno attaccato le scelte della politica: “Non si tratta di una norma anti-delocalizzazioni, anzi con questa legge ci avrebbero già chiuso”. Un’affermazione pesante all’indomani del voto in commissione Bilancio del Senato che ha dato il via libera all’emendamento battezzato “Orlando-Todde-Giorgetti”. Con il voto contrario delle destre (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia), del Pd e anche di Vasco Errani di Liberi e uguali, la commissione ha invece respinto l’emendamento con il disegno di legge redatto da un gruppo di giuristi progressisti, approvato dall’assemblea operaia, e ben più efficace per contrastare la chiusura delle fabbriche da parte della multinazionale di turno.
Più in generale, l’inazione di governo e maggioranza, sul tema cardine della transizione ecologica nel comparto automobilistico, allarma sempre più la Fiom Cgil, che con Michele De Palma e Simone Marinelli è esplicita: “Si sta perdendo l’ennesima possibilità di rilanciare il settore promuovendo una mobilità sostenibile, rinnovando le flotte pubbliche e private con veicoli ecologici prodotti nei nostri stabilimenti. Siamo l’unico Paese europeo che non ha un piano di politica industriale e incentivi per il rinnovo del parco circolante, quando invece occorre incentivare la ricerca e lo sviluppo, l’acquisto di auto elettriche ed ecologiche, e la trasformazione della produzione di componenti e veicoli, in cui sono occupati più di trecentomila metalmeccanici”.
A non essere però troppo cattivo con il ministro Orlando e la viceministra Todde, è l’invito di Stefano Fassina (Liberi e uguali): “Vanno ringraziati la sottosegretaria Todde e il ministro Orlando per l’impegno dedicato a introdurre misure contro le delocalizzazioni. Difficile arrivare a una soluzione incisiva in una maggioranza dove altri partiti difendono l’interesse delle grandi aziende”. E la difficoltà, sempre secondo Fassina, non riguarda solo il peso del quadro politico italiano. Era difficile arrivare a una buona legge sulle delocalizzazioni, spiega, “anche perché siamo immersi in un mercato unico europeo alimentato dal dumping sociale e fiscale tra Stati con welfare, tassazione, salari e diritti dei lavoratori drammaticamente lontani”.
È ovvio, quindi, che le norme anti-delocalizzazioni si sono tradotte in un deterrente piuttosto debole: raddoppiare, nel caso peggiore ma improbabile, il contributo sul licenziamento previsto nel Jobs Act, per un massimo di tre anni di anzianità lavorativa, vuol dire 3300 euro a lavoratore licenziato. Per cambiare veramente si dovrà ripartire da Bruxelles? E infine, prima di rispondere a questa domanda, una nostra annotazione a margine. Non si tratta solo di convincere la politica europea della necessità di regolamentare finalmente il mercato. Si tratta anche – ed è forse la partita più difficile – di trovare un nuovo equilibrio tra vari tipi di libertà. Finora una sola delle tante libertà non è mai stata rimessa in discussione: la libertà d’impresa.