Donald Trump ha ottenuto nelle elezioni presidenziali del 2020 oltre settantaquattro milioni di voti. Sette milioni in meno di Joe Biden, ma pur sempre una percentuale vicinissima al 47%, e soprattutto nove milioni in più di quelli che gli erano bastati per essere eletto nel 2016. Questo è il primo dato dello scenario politico statunitense. Secondo dato: le elezioni congressuali di midterm, ossia di metà mandato (presidenziale), sono in programma nell’autunno 2022: tutta la Camera dei rappresentanti e trentaquattro seggi su cento al Senato verranno sottoposti al giudizio degli elettori.
Secondo una recente analisi del network televisivo “Cnn”, “praticamente ogni singolo indicatore che indicava un’ondata democratica a metà mandato del 2018 ora punta a un’ondata repubblicana a metà mandato del 2022”. Per ribaltare quello che sembra un destino segnato, il presidente Biden avrebbe bisogno di imprimere una sterzata brusca alle politiche sociali ed economiche dei suoi predecessori, anche democratici. La sua popolarità è in calo anche a causa della zoppicante campagna anti-Covid: la variante Omicron è già dominante, i decessi sono stabilmente ben oltre i mille al giorno e il milione di morti complessivi non appare un traguardo lontano, meno di due terzi dei cittadini hanno completato il ciclo vaccinale, le forze armate andranno a supportare lo sforzo organizzativo degli ospedali.
A dispetto del suo curriculum non troppo di sinistra – a voler essere benevoli –, Biden è apparso fin dal primo minuto consapevole di non poter governare la crisi sociale drammatica causata (o meglio aggravata) dalla pandemia senza agire con decisione a supporto non solo della ripresa economica, ma anche delle fasce più deboli della popolazione. Il suo piano sociale “Build Back Better”, che avrebbe dovuto andare in parallelo con quello degli investimenti in infrastrutture, prevedeva di finanziare con nuove tasse sui ricchi e le grandi imprese un piano per l’assistenza all’infanzia, l’istruzione, la sanità pubblica e il contrasto al cambiamento climatico, con una posta finanziaria da 3500 miliardi di dollari.
Nel tentativo di negoziare con l’ala destra dem al Senato, rappresentata in particolare da Joe Manchin e Kyrsten Sinema (voti decisivi nel 50-50 della Camera alta, “terzogiornale” ha raccontato qui lo scontro politico), la Casa Bianca nei mesi scorsi aveva accettato addirittura un dimezzamento della spesa, a 1750 miliardi. Non è bastato, almeno finora: domenica scorsa, con una intervista a “Fox News”, per anni il tempio dell’informazione filo-Trump, il senatore della West Virginia Manchin ha sferrato quella che il “Financial Times” ha definito “una coltellata inferta all’agenda economica di Biden” e “una vittoria per i gruppi affaristici”. “Le mie preoccupazioni – ha sostenuto Manchin, la cui posizione ha ricevuto festose accoglienze nel campo teoricamente avverso dei repubblicani – sono cresciute di fronte al peggioramento della pandemia, alla crescita dell’inflazione e alle incertezze geopolitiche”. Gelida la reazione della portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki: “Continueremo a premere su di lui per vedere se cambierà ancora una volta la sua posizione, per onorare i suoi impegni precedenti ed essere fedele alla sua parola”.
Resta da vedere se si andrà a un braccio di ferro, se i democratici forzeranno un voto al Senato, nonostante la defezione di Manchin per costringerlo a “tradire” formalmente il campo democratico (cosa che potrebbe anche rafforzare future e più alte ambizioni del senatore, che gode di grande favore – e finanziamenti – dal mondo delle imprese ed è sempre più popolare a destra, almeno nei palazzi della politica di Washington). Ma la durissima battuta d’arresto che sembra profilarsi per la politica economica di Biden, non potrà che avere conseguenze importanti ben oltre i confini del Distretto di Columbia. Sia perché rischia di accentuare l’onda positiva per i repubblicani, sia perché restringerà gli spazi di azione in senso progressista per molti partner degli Stati Uniti – a cominciare dall’Unione europea, nella quale un piano ambizioso come quello del presidente americano non è al momento immaginabile. Infine, perché il rilancio che la Casa Bianca dovrà tentare nel 2022, per evitare una débâcle elettorale, rischia di dover fare ricorso ai classici strumenti della politica di potenza: e di portarci quindi sull’orlo di nuovi conflitti militari, dall’esito sempre poco prevedibile.