Cambia il vento o, per meglio dire, cambia il ciclo politico in America latina? I fatti indicano probabilmente di sì. Dopo il ritorno delle destre al governo (Cile, Brasile, Ecuador), che aveva seguito il primo decennio Duemila della sinistra con il vento in poppa (il Venezuela di Chávez, il Brasile di Lula, il Cile di Bachelet, la Bolivia di Morales, l’Uruguay di Pepe Mujica), l’elezione di Gabriel Boric alla presidenza cilena consolida la possibile inversione di rotta. Il barometro, infatti, indica bel tempo a sinistra. L’esito delle elezioni in Cile, le lotte popolari in Colombia, il ritorno della sinistra al governo della Bolivia nel 2020, hanno un sapore che travalica i confini nazionali delle singole situazioni.
La controtendenza aveva avuto un’ulteriore luce verde lo scorso 11 aprile, quando le elezioni in Perù erano state vinte dal leader sindacale Pedro Castillo proveniente dal mondo rurale andino. In Centroamerica la buona notizia era venuta lo scorso 28 novembre con l’affermazione della progressista Xiomara Castro, prima donna a essere eletta presidente in Honduras. La vittoria di Boric in Cile riaccende pure le speranze di un ritorno alla presidenza di Lula in Brasile, il che potrebbe confermare una tendenza (si andrà alle urne nell’ottobre 2022).
La novità cilena di Boric consiste in una coalizione (Frente amplio più Partito comunista) di una sinistra pragmatica che non pone pregiudiziali ideologiche alla propria azione. La giovane età del neopresidente cileno (35 anni) lo rende inoltre libero dagli ancoraggi con la sinistra che si è riconosciuta in passato nelle esperienze di Cuba, Venezuela, Nicaragua, o in quella massacrata da Pinochet e dagli altri generali golpisti che hanno dominato in America latina. Boric rappresenta una nuova sinistra meticcia nei riferimenti culturali e ideali, capace di criticare la coppia dinastica e autoritaria degli Ortega al potere nel Nicaragua, l’eccessivo immobilismo pur resistente di Cuba, l’isolazionismo senza prospettive del Venezuela (basta ripercorrere su internet le sue dichiarazioni in campagna elettorale).
Boric, il candidato della sinistra ora presidente, aveva sconfitto alle primarie della coalizione di sinistra Daniel Jadue, il candidato del Partito comunista, senza creare fratture insanabili. Deputato, storico leader dei movimenti studenteschi, Boric si è presentato con un programma fortemente ambientalista, puntando alla completa decarbonizzazione del Cile. Si è dichiarato inoltre femminista, annunciando che il suo sarà “il primo governo ecologista della storia del Cile”. Boric critica fortemente il neoliberismo e vuole rendere pubblico il sistema sanitario e quello pensionistico, oggi entrambi privatizzati, decentralizzando i poteri dello Stato. Intende quindi costruire un welfare in un Paese dove tutto è stato privatizzato dai Chicago Boys che ne hanno fatto in passato un laboratorio neoliberista. “Per vivere meglio” è così diventato uno slogan semplice e mobilitante della campagna elettorale di Boric, con poca dose di ideologia.
Per identità meticce della nuova sinistra (non solo latinoamericana) – va precisato – si intende un mix di pluralità di riferimenti: ecologismo, femminismo, socialismo e tracce di neocomunismo. Queste identità devono poter convivere in nuovi soggetti-partito o in coalizione e ora – in Cile, Honduras, Perù, Bolivia – al governo. È questa la lezione cilena. Boric dovrà però consolidare i propri consensi in un Paese diviso a metà, quasi come una mela, e dove si può rischiare la paralisi legislativa perché i margini di maggioranza parlamentare sono risicati.
Nell’immediato, occorre poi non rifare gli errori della sinistra latinoamericana al governo. Destra e potentati economici fanno il loro mestiere, sarebbe tuttavia un errore pensare che non ci siano state debolezze e contraddizioni nel seno stesso delle esperienze progressiste della storia recente. Se il Venezuela è allo stremo di una crisi economica lacerante – e in Brasile si è formata in parlamento una maggioranza anti-Rousseff, che ha permesso l’incarcerazione per lungo tempo di Lula, oltre all’avvento alla presidenza di un fascista come Bolsonaro –, le responsabilità non sono solo “esterne”. Il chavismo bolivariano, dopo la morte di Chávez, ha perso smalto e progetto sempre più accerchiato dai suoi nemici. In Brasile, la corruzione si è insinuata nelle file del Partito dei lavoratori e in alcuni settori dello stesso governo di Lula che, dopo alcuni successi economici, arrancava di fronte alle richieste sociali di una inedita classe media. In Bolivia, l’ostinazione di Morales di ricandidarsi per la quarta volta come presidente ha favorito la destra, poi nuovamente scalzata elettoralmente dalla sinistra del Movimento verso il socialismo.
Sul terreno sociale ed economico si è intanto logorato, nelle esperienze di governo della sinistra, il modello di sviluppo interamente incentrato sugli idrocarburi (lo segnalavano da tempo i cooperanti e i critici da sinistra di questa esperienza). In Brasile, Venezuela, Bolivia – per fare degli esempi – non si sono create alternative al cosiddetto “capitalismo estrattivo”. Ora serve una sinistra meticcia, plurale, che sappia sperimentare nuove politiche economiche.