Che cosa si aspetta ad assumere misure drastiche per cercare di arginare questa maledetta ripresa pandemica su larga scala? Non si tratta soltanto delle varianti, della minaccia costituita da “omicron”, eccetera. C’è che per far funzionare le vendite di Natale, per tenersi alti con il famoso 6,2% di crescita del Pil, si esita. È questa la minaccia che pesa di più. E la dice lunga su quale sia l’autentica posta in gioco sociale di qualsiasi epidemia: non le fregnacce sul “sovrano che decide circa lo stato di eccezione”, non quelle sulla presunta “dittatura sanitaria”. A essere in pericolo, piuttosto, sono “i schei”, i quattrini, la dolce vita a gogò delle feste e festicciole, o dei grandi pranzi di famiglia con i nonnastri e gli ziastri che incontrano i nipotastri (come se non avessero altre occasioni per infettarsi, eventualmente). Insomma, soprattutto a Natale, business as usual, da un lato; e dall’altro quel centinaio di morti al giorno, che vuoi farci?
Lo sapevamo fin dall’inizio che, dinanzi a un virus con la vitalità che ha questo qui, non sarebbe stata sufficiente la campagna vaccinale; ci vuole senz’altro questa – anche con l’obbligo, se è il caso, non solo con il green pass –, e ci vogliono le restrizioni. Ricordate i mesi del lockdown generalizzato? In mancanza di dispositivi protettivi, senza neppure l’ombra di un vaccino, si arrivò ad abbattere, in otto settimane o poco più, la curva pandemica. E la ragione è chiara: l’antidoto più efficace alla diffusione dei contagi consiste nel limitare il più possibile la circolazione delle persone. Sarebbe da sciocchi avere una visione magica dei ritrovati della ricerca scientifica; non è che, essendo vaccinato, uno abbia un lasciapassare per poter fare tutto ciò che gli aggrada: ballare, sciare o altre cosucce del genere che si è soliti fare durante le vacanze e per festeggiare. Se a ciò si aggiunge che in Africa, per dare qualche cifra, soltanto il 13% della popolazione è vaccinato, si può facilmente capire perché non ci sia affatto da stare tranquilli.
La pandemia – ormai è chiaro – ci accompagnerà ancora per un pezzo. Unicamente delle politiche sanitarie rigorose potranno contenerne gli effetti. Ma l’economia ha i suoi diritti, si dice: non si può morire di fame per non morire di polmonite bilaterale. E chi lo dice che non sia preferibile una morte a un’altra? Coloro che si ammalano in modo grave di sicuro, se interrogati, preferirebbero fare la fame. Anche perché la “fame” e le sue conseguenze – protestare, per dirne una, contro la perdita del potere d’acquisto o contro l’aumento dell’inflazione, oppure battersi per mantenere il proprio posto di lavoro –, la “fame”, dico, è produttrice di movimento e di conflitto sociale. La polmonite bilaterale invece ti stende fin da subito: t’intubano e buonanotte. La pace sociale, con il corrispettivo aumento del Pil, può tranquillamente sopportare questo genere di morte. La minaccia dell’altra, invece, quella della “fame”, è foriera di disordine sociale. Perciò la preferiamo.