Il Cile ha dovuto attendere quarantotto lunghi anni per dare definitiva sepoltura al colpo di Stato dell’11 settembre 1973, ad Augusto Pinochet e ai suoi eredi. E domenica 19 dicembre ha voltato pagina con la faccia pulita del nuovo presidente, il più giovane della sua storia e il più votato. Risale solo a qualche giorno prima la morte della vedova del dittatore, Lucía Hiriart, serenamente mancata nel suo letto alla soglia dei cent’anni, e alla quale le cronache assegnano un ruolo decisivo nelle scelte del marito. Al centro delle polemiche per le ricchezze accumulate durante e dopo la dittatura, indagata per le malversazioni fatte con la sua Fundación Cema Chile, con la quale rilevava edifici pubblici che poi rivendeva a cifre milionarie, è stata anche accusata per il caso della banca Riggs e per i conti segreti del marito – circa venti milioni di dollari – probabilmente provenienti da fondi pubblici. Tutto ciò senza che mai nessun tribunale o autorità le infliggesse una qualsiasi sanzione.
Così, appresa la notizia della morte, la gente di Santiago è scesa in piazza a festeggiare, avendo visto nel decesso dell’ex prima dama una sorta di presagio, in una vigilia elettorale in cui José Antonio Kast, il campione della destra senza complessi, lodatore di Pinochet e figlio di un ex nazista, incuteva paura con i fantasmi del passato.
Se una cosa in Cile ha poco credito sono i sondaggi, che già tante volte hanno sbagliato. È successo anche stavolta: le previsioni davano un risultato di misura, e invece è stata valanga. Così, mentre Kast già minacciava di ricorrere ai tribunali per sbrogliare una matassa che per primo forse avrebbe avuto interesse a intricare, tra accuse di brogli all’opposizione e fake news, a una mezz’ora soltanto dalla chiusura delle urne, inaspettato, è giunto il verdetto.
Gabriel Boric ha vinto con un distacco di poco meno di dodici punti percentuali, il che ha costretto il suo avversario a riconoscere la propria sconfitta e augurargli buon lavoro. Al calar della sera l’Alameda del Libertador Bernardo O’Higgins – la via principale della capitale – si riempiva di una marea di gente convenuta ad ascoltare il suo primo discorso da presidente, durante il quale ha parlato in mapudungu, la lingua dei mapuche. Mentre i caroselli delle macchine e i clacson facevano da colonna sonora fino a tarda notte. Una svolta storica per il Cile, non soltanto un cortese omaggio a una minoranza indigena storicamente discriminata. Con questa scelta, infatti, Gabriel Boric, originario di Punta Arenas dove i suoi avi croati sono emigrati, ha sancito una ideale liaison con la Convenzione costituzionale, intenta a scrivere un nuovo testo che archivi quello ereditato dalla dittatura, da sottoporre a referendum l’anno prossimo. La Convenzione è presieduta, non a caso, da una donna esponente mapuche, Elisa Loncón, che non più tardi di ieri aveva lanciato un appello ai due candidati perché assicurassero collaborazione in caso di vittoria. Ben consapevole dei rischi che il processo democratico avrebbe corso se avesse vinto Kast, l’esponente della destra contraria alla Costituente, intenzionato a riportare il Cile a prima della rivolta popolare dell’ottobre 2019, come se nulla da quel momento in poi fosse accaduto.
Esponente della nuova sinistra del Frente amplio, Gabriel Boric ha avuto i voti di comunisti, democristiani, socialisti e radicali, e della sinistra radicale di Marco Enríquez-Ominami, figlio del dirigente del gruppo rivoluzionario del Mir, ucciso dagli sgherri di Pinochet. Ex leader del movimento studentesco nato per il conseguimento di un’educazione gratuita e libera, Boric ha vissuto la fase in cui il movimento ha ampliato i propri obiettivi, includendo l’ambiente, la transizione energetica, i diritti della sessualità, fino a comprendere il cambio della Costituzione del 1980, la gabbia giuridica che ha fatto del Cile uno dei paesi più diseguali al mondo. E se un merito va dato per aver risvegliato politicamente un Paese che viveva impaurito dal golpe, apparentemente pago dei miracoli del neoliberismo, esso va senza dubbio riconosciuto ai movimenti studenteschi che – nel 2006 con i “pinguini” e ancora nel 2011 – hanno messo in crisi il falso modello efficientista cileno, svelandone la profonda iniquità.
Si è così realizzato una sorta di cortocircuito che ha reso la classe dirigente a tal punto avulsa dalla realtà della gente, da spingere Sebastián Piñera, il poco amato presidente uscente, a vantare la stabilità del Paese solo a pochi giorni dalla “rivolta dei tornelli”. Ancora una volta protagonisti gli studenti: all’inizio, per un banale aumento del biglietto della metro. Mentre, di lì a poco, il Cile monstrum dei “Chicago boys” scivolava nel baratro dello scontro sociale e della violenza, lasciando sul terreno, nelle settimane successive, più di trenta morti e migliaia di feriti.
Eletto dapprima come indipendente, rieletto poi con il Frente amplio nel 2017, collocandosi al secondo posto a livello nazionale nella classifica dei deputati più votati, Gabriel Boric ha stupito il Paese. Prima battendo alle primarie della coalizione Apruebo dignidad il favorito Daniel Jadue, comunista atipico e sindaco della Recoleta, una zona di Santiago. Poi, scoppiata il 18 ottobre 2019 la rivolta contro il sistema, contribuendo a delineare un’uscita dalla crisi – tra molte critiche provenienti dalla sua parte ma in seguito rientrate – che ha avuto il merito di indicare la strada del nuovo processo costituzionale ora in atto. Infine, arrivando al ballottaggio con Kast e vincendolo, mettendo per la prima volta fuori gioco sia il centrodestra sia il centrosinistra, che si sono alternati al governo dalla fine della dittatura in poi.
Pragmatico, ha saputo disancorarsi dalla critica ai partiti tradizionali, riuscendo a interpretare il diffuso desiderio di cambiamento dei giovani, delle classi medie, e degli ambienti universitari. Ma ha saputo anche mettere insieme tutto il frammentato arcipelago del centrosinistra. Dalla democristiana Yasna Provoste agli ex presidenti Ricardo Lagos e Michelle Bachelet, ai comunisti, ai radicali. Il segretario comunista Guillermo Teillier, che in campagna qualche problema gli ha dato con le sue posizioni a sostegno di Maduro e del Nicaragua, gli ha assicurato di volere la governabilità.
Per usare un parametro europeo, Gabriel Boric potrebbe essere considerato in sintonia con Podemos. Propugna un nuovo modello di Stato sulla falsariga del welfare europeo, proponendo la fine dell’attuale sistema pensionistico a favore di uno nuovo che dia una pensione minima di 296 dollari a tutti i maggiori di sessantacinque anni, oltre a incrementare le pensioni di coloro che già le percepiscono. Intende portare, alla fine del suo mandato, il salario minimo a superare i 592 dollari, riducendo la giornata lavorativa a quaranta ore settimanali, e condonando il debito educativo che oggi colpisce più di un milione di studenti, costretti a ricorrere a prestiti per finanziarsi gli studi. Vuole mettere fine alla sanità privata mediante un sistema universale sostenuto da un fondo della salute; e sull’ambiente vuole che il suo sia il primo governo ecologista della storia del Cile, non solo diversificando le fonti energetiche, ma mettendo fine all’uso di combustibili fossili. Per la politica estera intende ristabilire buone relazioni con la vicina Bolivia, con la quale il Cile ha avuto in passato molti problemi per il corridoio al mare richiesto dai boliviani.
Oggi i cileni festeggiano il nuovo presidente che già dal suo primo discorso ha saputo aprirsi al paese con grande empatia, suscitando profonde speranze in un cambiamento sociale, economico, ambientale e dei diritti della persona. In attesa di vederlo all’opera, la vittoria del vasto schieramento democratico, con a capo un presidente espresso da una sinistra giovane e moderna, legata ai temi più che alle ideologie, proietta una luce nuova sull’intera America latina. In attesa degli altri grandi appuntamenti elettorali del 2022, in Brasile e in Colombia.