Uno spettro si aggira per l’Italia: lo sciopero generale. Ce la potremmo cavare così, citando una immagine famosa e per certi versi abusata, per sintetizzare le reazioni degli opinionisti e di una parte dell’opinione pubblica nei confronti della nuova mobilitazione del movimento sindacale italiano. Ma l’argomento è troppo serio per ridurlo a battute ad effetto.
Se ne parla nei bar, tra gli amici del calcetto, magari anche a scuola tra gli insegnanti e gli studenti. Ne parlano i precari e le partite Iva (finte o vere in questo caso non importa): come ci difende il sindacato? È ancora utile scioperare? Ne parlano ovviamente gli opinionisti che fanno quasi sempre a gara per riprodurre una fotografia della realtà a immagine e somiglianza del “pensiero dominante”: il maestro, decano di tutti i più realisti del re, è ancora Bruno Vespa.
Ma se vogliamo andare un po’ più a fondo, c’è prima di tutto da notare che lo sciopero, questa volta, ha fatto notizia in quanto tale – in quanto azione conflittuale, non amichevole – e soprattutto per il suo grado di sfrontatezza, che evidentemente ha rotto il clima idilliaco da unità nazionale creato dalla pandemia. Uno strappo che ha spiazzato molti. Il primo a essere meravigliato della decisione delle segreterie di Cgil e Uil di andare avanti con la mobilitazione per portare lavoratori e pensionati in piazza è stato il presidente del Consiglio, candidato virtuale al Quirinale, Mario Draghi, che non ha neppure provato a camuffare il suo stupore.
Ma il governo presieduto dall’ex governatore della Banca centrale europea è abituato al pragmatismo, e ha cercato di rispondere in qualche modo alla provocazione: sono state aumentate le risorse per evitare la batosta dell’aumento delle bollette; sono stati suggeriti piccoli aggiustamenti in campo fiscale e soprattutto è stato convocato (per lunedì 20 dicembre) un nuovo tavolo per discutere di pensioni. Vedremo come si svilupperà ora il confronto, anche perché i segretari generali della Cgil e della Uil, parlando dal palco dello sciopero generale, sono stati chiari: il sindacato proseguirà la sua battaglia per introdurre una maggiore equità e giustizia fiscale nel Paese che vanta i più vistosi record di evasione e condoni. (A proposito, in pochi hanno notato che la richiesta di una parte della maggioranza – Lega di Salvini in testa –, la stessa che ha bocciato la proposta di Draghi sul contribuito di solidarietà temporaneo sopra i 75mila euro, riguarda la rottamazione delle cartelle esattoriali, ovvero un ennesimo condono fiscale).
Uno dei commenti più acidi contro lo sciopero generale di Cgil e Uil è stato quello di Dario Di Vico sul “Corriere della Sera”. L’editorialista di via Solferino prima di tutto ha preso per buoni i dati farlocchi della Confindustria sulle adesioni allo sciopero nelle fabbriche: solo il 5%, dice il presidente Bonomi, che il giorno dopo ha scoperto il suo giornale, il “Sole 24 ore”, con le pagine ridotte proprio a causa dello sciopero, e ha poi introdotto un’immagine dura per descrivere lo stato attuale del sindacato: “macerie”.
Altri – Giorgio Meletti, per esempio – hanno battuto sui tasti facili della effettiva rappresentatività generale del sindacato contemporaneo, che non riuscirebbe ancora ad arrivare a tutti quei lavoratori che sono fuori dai contratti nazionali. Una “fragilità” che è ben presente agli stessi gruppi dirigenti delle confederazioni, che hanno già avviato una riflessione sulle nuove forme che deve assumere il proselitismo.
Una volta, al centro dell’adesione sindacale, c’era la grande fabbrica. Spesso le grandi fabbriche del Nord, mentre la storia ci racconta della crescita del sindacato tra i “cafoni” del Sud e delle tante alleanze che si sono costruite tra i contadini meridionali e gli operai settentrionali (che poi erano in larga parte meridionali emigrati al Nord).
Alla fine degli anni Settanta del Novecento, nel movimento sindacale e soprattutto all’interno della variegata sinistra parlamentare ed extraparlamentare, esplose la questione del contrasto tra “garantiti” e “non garantiti”, che si ripropone oggi in forme completamente diverse. Il tema, però, è come andare a conquistare lavoratori che non incontrano più “naturalmente” il sindacato. E comunque come spingere giovani che sono costretti a fare i conti direttamente con i propri datori di lavoro a rivolgersi al sindacato per la conquista dei loro diritti, o comunque a tentare di organizzarsi collettivamente. Più in generale – anche nell’ambito delle lotte sindacali – si pone la grande questione del nuovo rapporto tra individuo e comunità, tra individualismo e solidarietà sociale.
Per quanto riguarda i sindacati, visti come forza sociale e corpo intermedio, è sicuramente centrale il problema dell’unità. Interpellato sulla divisione delle sigle sindacali in occasione dello sciopero generale senza la Cisl, un ex dirigente di livello come Giorgio Benvenuto, ammette a malincuore che si è trattato di un errore fare uno sciopero “separato”. Ma nello stesso tempo, alla luce della sua grande esperienza sindacale e politica, Benvenuto mette in luce due elementi importanti che sono sfuggiti a buona parte dei commentatori. C’è da ricordare, anzitutto, che le divisioni sindacali non sono certo una novità del 2021. L’unità sindacale è un animale delicato che è stato messo a repentaglio in più occasioni nella storia dell’Italia repubblicana. Anzi, si può dire che l’unità è un obiettivo da raggiungere e da rinnovare continuamente (pensiamo per esempio a come sono nate, nel dopoguerra, le attuali organizzazioni confederali). L’unità sindacale è sicuramente l’arma più potente nelle mani del movimento dei lavoratori, ma è stata accantonata in tante occasioni.
Giorgio Benvenuto ricorda, per esempio, il caso del 1984, quando Cgil, Cisl e Uil si spaccarono sulla scala mobile. Lo spunto interessante di Benvenuto riguarda dunque la distinzione tra rotture sui contenuti politici e sindacali delle vertenze, e rotture sugli strumenti per ottenerli, ovvero il ricorrente problema delle “forme di lotta”. Paradossalmente Cgil, Cisl, Uil sono più unite oggi (questo il secondo elemento che suggerisce Benvenuto) che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Oggi condividono una piattaforma unitaria su cui neppure la Cisl, che non ha aderito allo sciopero, ha nulla da eccepire e nulla di cui pentirsi; tant’è che ha organizzato una manifestazione da sola sempre sulla manovra.
La riflessione sulle forme del conflitto nell’epoca digitale e sul successo o l’insuccesso delle battaglie sindacali per i diritti è di grande attualità e interesse, e andrebbe sviluppata con approfondimenti da diverse angolazioni. Abbiamo letto spunti interessanti in questi giorni, come quelli di Marco Revelli, di Fabrizio Barca, del sociologo De Masi. Vogliamo però ora concludere questa nostra breve riflessione sullo sciopero, ritornando ai “contenuti” dello scontro in atto. Lo facciamo rilanciando un ragionamento di una esperta di materie fiscali, Maria Cecilia Guerra, sottosegretaria al Tesoro (Leu). Lo sciopero – ha detto Guerra rispondendo alle domande di un giornalista – è un segnale forte che il governo deve ascoltare. “Non capisco lo stupore né il fastidio verso un atto fisiologico di conflitto sociale. I sindacati rappresentano larghi strati della popolazione, chiedono attenzione su temi importanti e intercettano un malessere diffuso – precarietà, delocalizzazioni, disuguaglianze – che non nasce con la pandemia e sta crescendo. Comprendo quindi le ragioni dello sciopero, anche se non condivido la valutazione complessiva della manovra”.
Gli aspetti positivi – secondo la sottosegretaria – superano quelli negativi: è espansiva, aumenta il welfare in molti campi, dai fondi per la sanità all’ampliamento del finanziamento del reddito di cittadinanza, all’intervento sulle bollette per le fasce più deboli. Su molti temi non dà risposte, ma la legge di Bilancio non può raddrizzare tutte le storture della società. Sul fisco il governo ha indirizzato il taglio delle tasse ai redditi medio-alti. “Personalmente non avrei ridotto l’Irap, avrei concentrato lo sforzo nel ridurre il cuneo fiscale con uno sgravio contributivo, come chiedevano i sindacati”.
Insomma una ricetta chiara all’insegna di una maggiore giustizia ed equità fiscale. Bisognava puntare all’equità del prelievo. Al contrario, ridurre gli scaglioni porta al rischio che il taglio si concentri sulle fasce medio-alte. Così non si ottiene un effetto redistributivo. “Cgil e Uil – dice Maria Cecilia Guerra – hanno ragione sul tema dell’evasione fiscale. Una vera riforma deve allargare la base imponibile e far pagare tutti allo stesso modo a parità di reddito. Qui risposte non sono state date”. La partita rimane aperta.