Negli anni Settanta del secolo scorso l’Honduras, piccolo Paese centramericano, era sconosciuto ai più. Se ne occupavano solo gli osservatori più attenti agli eventi del continente. Per tutti gli anni Ottanta, invece, assurse agli onori delle cronache perché, dal suo territorio, partivano gli attacchi dei contras, gruppi armati finanziati dagli Stati Uniti che cercavano di destabilizzare il governo sandinista del vicino Nicaragua. Poi il silenzio fino a questi ultimi anni.
Prima la gran massa di migranti che tenta di fuggire dal Paese più povero dell’America latina dopo Haiti; poi, il 21 novembre scorso, la vittoria della prima donna alle elezioni per la presidenza della Repubblica. Si tratta di Xiomara Castro, 62 anni, candidata del partito di sinistra Libertad y Refundación (Libre). Moglie dell’ex presidente Manuel Zelaya – deposto nel 2009, costretto all’esilio fino al 2011 da un colpo di Stato militare – si è affermata con il 53,61% dei consensi, oltre 1,5 milioni di voti, un record, contro il 33,84% ottenuto da Nasry Asfura, attuale sindaco di Tegucigalpa e candidato del Partido nacional, di destra, al potere da dodici anni. Al terzo posto, Yani Rosenthal del Partito liberale. Il voto, che ha riguardato 5,2 milioni di elettori ed elettrici, è servito anche per eleggere tre vicepresidenti, 128 deputati del Congresso nazionale, venti del parlamento centroamericano, e i sindaci di 298 città. La partecipazione è stata di circa il 62%.
La sfida per Castro è da far tremare i polsi. Gli effetti drammatici delle politiche neoliberiste del suo predecessore, il corrotto Juan Orlando Hernández, per nulla mitigati da un’economia in crescita dopo la crisi provocata dalla pandemia, non ha fatto altro che accentuare una povertà senza eguali. Secondo i dati della Commissione economica per l’America latina e i Caraibi, circa il 40% degli honduregni vive in povertà estrema e il 67,4% in povertà relativa.
Una situazione – rende noto la Comunità di Sant’Egidio, impegnata in aiuti nella capitale Tegucigalpa, a San Pedro Sula e a Comayagua – che sta provocando una migrazione senza precedenti verso il Messico e gli Stati Uniti. Nel 2019, quando era Donald Trump inquilino della Casa bianca, fautore di una politica anti-immigrazione senza precedenti, fatta propria anche dal governo messicano, sono stati circa 300mila gli honduregni fuggiti negli Usa, con un conseguente aumento delle deportazioni tra il 2018 e il 2019. Circa 109.185 migranti sono stati rispediti in patria, tra questi 24.040 bambini. Come altrove, anche in Honduras le rimesse dei migranti sono una fonte importante per l’economia del Paese, rappresentando circa il 20% del Pil.
La nuova presidente dovrà affrontare anche la pandemia – che ha provocato finora oltre 378mila contagi e circa diecimila morti –, contro la quale non è stato fatto praticamente nulla. A metà di aprile, secondo i dati forniti dalla Organizzazione mondiale della sanità e dall’Università di Oxford, risultava vaccinato solo lo 0,03% della popolazione (2.639 su un totale di più di nove milioni di abitanti). Un quadro desolante, che riporta a galla la tragedia di quel Sud del mondo messo ai margini della campagna vaccinale.
A questi problemi, si aggiunge la tragedia della violenza, la quale, come in altri Paesi di quell’area, assume aspetti drammatici più simili a quelli di una guerra che a un relativamente normale disagio sociale. Già la campagna elettorale è stata caratterizzata da attentati e morti. Il Partido nacional è stato il più colpito, con trentuno vittime, a seguire Libre con venti e il Partito liberale con dodici. La violenza di strada è determinata dalla presenza dei narcotrafficanti e dalle temibili bande giovanili, che qui si chiamano maras. Per esempio, la città di San Pedro Sula è considerata la più pericolosa del mondo, con 187 morti ogni centomila abitanti in un anno. Castro, in campagna elettorale, ha promesso di trasformare l’Honduras, considerato un “narco-Stato”, in un Paese normale.
A tutto questo bisogna aggiungere le violazioni dei diritti umani che accomunano molti paesi latinoamericani, e che colpiscono leader ambientalisti, sindacalisti e nativi. Il 26 dicembre 2020 è stato ucciso il difensore dei diritti dei popoli indigeni, Félix Vásquez, appartenente al popolo Lenca (lo stesso della compianta attivista ambientale Berta Cáceres), segretario dell’Unión de los trabajadores del campo, campesina e indigena. Tra il 2002 e il 2014, si sono registrati ben centoundici omicidi di attivisti ambientalisti, come denuncia la Ong Global Witness.
C’è poi il tema ricorrente della violenza contro le donne. Secondo il Centro por los derechos de las mujeres, “tutte le morti violente che le donne honduregne subiscono hanno cause sociali e strutturali, in quanto lo Stato non fa quasi nulla per garantire loro il diritto a una vita senza violenza”. Senza dimenticare la questione dell’aborto, che in Honduras è proibito, con una delle peggiori legislazioni al mondo. L’interruzione di gravidanza è vietata anche in caso di stupro o incesto, gravi malformazioni del feto o quando la vita o la salute della madre è minacciata. E la legge è praticamente immodificabile. Per la deputata della sinistra Doris Gutiérrez, “questo nuovo articolo è stato scolpito perché non sia più possibile riformarlo, in quanto servirebbero 96 voti sui 128 parlamentari”. Un grosso ostacolo, dunque, per le intenzioni innovatrici della nuova leader.
Di fronte a questa mole infinita di problemi, non si sa quanto Xiomara Castro sia stata consolata dalle congratulazioni del segretario di Stato americano Anthony Blinken, che ha impegnato il suo Paese “a sostenere l’Honduras nel rafforzamento delle sue istituzioni, nella promozione della crescita economica e nella lotta alla criminalità”. Com’è noto, la politica di Washington ha sempre impedito ogni tentativo di riscatto economico e sociale delle popolazioni latinoamericane. E l’Honduras non fa eccezione, trasformato da decenni in una vera e propria base militare Usa. Anche dietro la cacciata di Zelaya il ruolo giocato dalla Casa bianca, il cui inquilino era allora Barack Obama, è stato ambiguo, come pure scarsi sono stati gli sforzi per farlo ritornare in patria.
In un’intervista rilasciata a “Vatican News”, Riccardo Moro, docente di Politiche dello sviluppo all’Università statale di Milano, esperto di America latina, ha dichiarato che “la vittoria di Castro va inquadrata nelle vicende locali dell’Honduras come riaffermazione del processo democratico. Speriamo – ha sottolineato Moro – che la sua elezione possa portare a rapporti regionali più sereni, visti i recenti conflitti con El Salvador, e che la serenità possa favorire rapporti commerciali con benefici per tutti”.
Come dicevamo, il futuro di questo Paese è molto legato alla politica di Biden, il quale ha manifestato l’intenzione di creare un rapporto costruttivo. L’augurio è che queste buone intenzioni si trasformino in realtà, mettendo fine all’ostilità degli Stati Uniti nei confronti della sinistra latinoamericana. E anche in questo caso l’interrogativo è d’obbligo. Quali condizioni verranno poste per aiutare questo patio trasero (“cortile di casa”) degli Stati Uniti? Dalla risposta all’interrogativo si potrà capire se l’Honduras potrà voltare pagina, o se resterà nell’inferno della povertà e della violenza.