La decisione di confermare lo sciopero generale del 16 dicembre, da parte della Cgil e della Uil, ha suscitato reazioni opposte. C’è chi ha applaudito: finalmente si torna a parlare del Paese reale, oltre le rappresentazioni della politica, lo sciopero è quasi “un vaccino sociale”. Ma c’è anche (ed è stato un coro molto rumoroso) chi ha fischiato e tirato patate e pomodori. Erano anni che non assistevamo a una frattura del mondo sindacale così palese, anche perché, dall’epoca degli accordi separati – Cgil da una parte, Cisl e Uil dall’altra –, molte cose sono cambiate, e il quadro di oggi non è paragonabile a quello degli anni del berlusconismo.
La rappresentazione mediatica mostra un’Italia spaccata, che stenta a capire le ragioni della mobilitazione dei lavoratori, perché questi non sono più da tempo quella classe generale che si può far carico dei destini del Paese. Anzi, sono considerati quasi dei privilegiati perché almeno hanno un’occupazione stabile. Ma è davvero così?
Intanto bisogna dire una cosa. Lo sciopero di giovedì prossimo non è nato da una ripicca contro qualcuno (il premier Draghi) o da una scelta di visibilità dei leader sindacali, come sostengono certi leader che, al contrario, fanno della loro visibilità mediatica l’essenza della politica. Come tutti gli scioperi, si tratta di una scelta obbligata e sofferta, perché il sindacato (anche la Cisl) ha visto alzarsi un muro di “no” di fronte alle proposte di rendere più “giusta” la manovra: basta andarsi a leggere la piattaforma firmata dai tre segretari generali per capire quali sono le distanze tra le richieste e le misure messe in campo con la legge di Bilancio.
Gli argomenti a favore dello sciopero sono molto semplici, e crea stupore lo stupore dei critici. I sindacati avevano chiesto un intervento fiscale che potesse alleggerire il peso delle tasse sui redditi da lavoro e da pensione. Non solo come misura di giustizia sociale e risarcimento, ma anche come misura anticiclica, perché è noto a tutti che aumentando salari e pensioni si produce un effetto positivo sull’aumento dei consumi, e quindi sull’economia generale: cosa che non avviene quando i benefici economici premiano i gradini più alti della scala dei redditi. Anzi, spesso il miglioramento delle condizioni dei ricchi va a incentivare la rendita. Si sarebbe dovuto intervenire utilizzando la leva delle detrazioni e della decontribuzione per favorire quella fascia estesa di popolazione che vive di lavoro e paga le tasse da sempre.
Invece si è deciso di operare sulla riduzione delle aliquote aumentando l’ingiustizia anziché ridurla. Il governo Draghi ha scelto infatti di intervenire sui redditi di tutti i contribuenti, anche quelli più ricchi. Il risultato è che avranno più benefici coloro che hanno redditi elevati e molto elevati. Ennesima prova della tesi che servirebbe una “ingiustizia” per combattere davvero le diseguaglianze. Siamo invece di nuovo di fronte a una progressività dei benefici finali rovesciata. Solo un piccolo esempio per far capire il meccanismo. Un contribuente lavoratore dipendente con un reddito di 34mila euro avrà un beneficio fiscale pari a 74 euro l’anno. Un contribuente con un reddito pari a 40mila euro avrà invece un beneficio di quasi mille euro l’anno (945 euro per la precisione).
Cgil, Cisl, Uil chiedevano di mettere in campo misure concrete per combattere l’evasione fiscale che è la vera palla al piede di un Paese che non riesce a decollare. Oltre che rappresentare lo scandalo degli scandali dal punto di vista della giustizia sociale e dell’etica pubblica. Niente. Silenzio totale e nessun grido di indignazione da parte di coloro che oggi attaccano il sindacato. Nessuno scandalo (anzi applausi) sulla decisione di tagliare l’Irap, la tassa sulle attività di impresa, con cui si finanzia il sistema sanitario pubblico. Anche qui abbiamo assistito al teatrino delle ipocrisie, perché oggi sono felici di un ennesimo taglio alla sanità gli stessi personaggi che hanno definito “eroi” i medici e gli infermieri impegnati in prima linea nella lotta contro la pandemia.
Con lo sciopero il sindacato non difende i giovani e le donne, dicono i critici della prima e dell’ultima ora. Pensate sempre ai lavoratori dipendenti e ai vecchi, è l’accusa. Si spende troppo per pensioni e poco per le famiglie e le giovani coppie. Ma poi se vai a chiedere a questi censori quali sono i punti di miglioramento per la condizione reale dei giovani e delle donne contenuti nella manovra per il 2022 non ti sanno rispondere. L’importante è attaccare il sindacato che, con tutti i suoi limiti, sta cercando proprio di riunificare gli interessi dei giovani precari a quelli dei lavoratori stabili più anziani in uno scenario di progressiva devastazione dei legami di solidarietà. Va in questa direzione, per esempio, la proposta di una pensione di garanzia per tutti coloro che oggi svolgono lavori instabili e mal pagati. Una pensione che dovrà integrare quella costruita con anni di precariato e di interruzioni del percorso professionale, pensione che inevitabilmente sarà troppo bassa e comunque insufficiente a garantire condizioni dignitose di vita (Costituzione della Repubblica italiana del 1947).
Ma c’è un intoppo. La proposta per i giovani si basa su un nuovo concetto di solidarietà sociale tra generazioni. E se il giorno si giudica dal mattino dobbiamo essere quindi molto preoccupati per il futuro. Se a decidere sull’introduzione di una pensione contributiva di garanzia, saranno gli stessi che hanno bocciato la proposta del premier Draghi di introdurre un contributo minimo di solidarietà a carico dei redditi superiori a 75mila, neppure 300 euro all’anno, misura una tantum non replicabile per far fronte al caro bollette, possiamo essere certi già da ora che la pensione di garanzia non vedrà mai la luce.