Sebbene Sergio Mattarella lo abbia detto e ripetuto, con la serietà che gli è propria, che non ci pensa a farsi rieleggere alla presidenza della Repubblica, sia i “bis!” sentiti al teatro della Scala sia l’interesse di qualche dirigente politico, forse incapace di prospettare soluzioni, sembrano insistere sulla possibilità di una riconferma dell’attuale inquilino del Quirinale. Ma è il caso di ricordare a costoro che siamo in una repubblica parlamentare (per fortuna) in cui il capo dello Stato dura in carica sette anni. È vero che un’esplicita norma che ne vieti la rielezione non c’è nella Costituzione, ma nemmeno è scritto il contrario: e cioè che il presidente sia rieleggibile.
L’eccezione, che non è una regola, è quella di Giorgio Napolitano, il quale fu riproposto per un incredibile secondo mandato “a tempo”, tra il 2013 e il 2015, in una situazione politica particolare, immediatamente post-elettorale, che vide la sconfitta del segretario di quello che era, purtuttavia, uscito come il partito di maggioranza relativa, cioè il Pd, nel tentativo di far convergere i voti prima su un candidato (Marini) e poi su un altro (Prodi). Sembrò a quel punto ragionevole rieleggere Napolitano, al fine di evitare un’impasse. Intanto si profilava, con la spinta dello stesso Napolitano, una soluzione di governo da solita “unità nazionale” all’italiana (anche per l’indisponibilità grillina a entrare in una maggioranza con il Pd) e una nuova “stagione di riforme” – poi come da copione abortita – che avrebbe aperto la porta, sotto la regia di Renzi, a un progetto di rafforzamento dei poteri dell’esecutivo in chiave larvatamente presidenzialistica.
Si trattava peraltro di una tentazione ricorrente nella politica nostrana, dai tempi di Craxi – addirittura – che per primo cominciò a parlare di presidenzialismo (a parte i pruriti missini), passando per lo strano “inciucio” (termine giornalistico che, modificando l’originario significato dell’espressione napoletana, appunto a proposito della questione cominciò a circolare, nel senso di un “accordo poco trasparente”) tra Berlusconi e D’Alema, doveva arrivare fino a Renzi e alla sua sconfitta nel referendum costituzionale confermativo del 2016 – che decretò il necessario abbassamento, sia pure temporaneo, della sua ruota da pavone. È insomma riguardo all’introduzione di una riforma costituzionale in senso presidenzialistico che è legato anche il “piccolo presidenzialismo” di Napolitano, a suo tempo.
Ci troviamo ora in tutt’altra contingenza politica. Di riforme, con quel significato minaccioso, non si sente più parlare. E sarebbe allora solo per togliere le castagne dal fuoco a qualcuno che la rielezione di Mattarella tornerebbe utile. Mario Draghi, infatti, candidato “naturale” alla carica di capo dello Stato, si trova a essere al tempo stesso una sorta di salvatore della patria come presidente del Consiglio. Come fare per tenerlo ancora un annetto, fino ai primi mesi del 2023, in quella strategica posizione, senza costringerlo tuttavia a rinunciare completamente a quell’avanzamento in grado che sarebbe il passaggio alla presidenza della Repubblica? Ecco, si potrebbe lasciare per un po’ Mattarella al Quirinale – magari giusto il tempo per approvare, a larghissima maggioranza, una riformetta della Costituzione che impedisca, poi, la rielezione del capo dello Stato, cosicché Mattarella a un certo punto abbia a dimettersi –, e tenere intanto “in caldo” il posto a Draghi.
Nessun gioco politico-istituzionale sarebbe più idiota. E bisogna dirlo con estrema chiarezza: il modo per risolvere l’inghippo, dato dalla presenza alla presidenza del Consiglio del candidato meglio piazzato alla presidenza della Repubblica, non può essere quello di distorcere la Costituzione una volta di più. Se Napolitano in passato si prestò al gioco, mettiamo pure quella sua disponibilità sul conto di una situazione particolare uscita dalle urne. Il parlamento odierno, però, non pressato dall’urgenza di formare un governo (come fu nel 2013), ha tutto il tempo di avviare una trattativa tra le forze politiche per risolvere il rebus. C’è infatti la possibilità di eleggere Draghi, già al primo scrutinio, e di mettere il governo nelle mani del suo fido aiutante Franco, attuale ministro dell’Economia, fino alla scadenza della legislatura nel 2023, o anche solo per gestire elezioni anticipate. Oppure si può convergere su un altro nome, per esempio su quello di Marta Cartabia, attuale ministra della Giustizia, capace di riscuotere consensi a destra e a sinistra. Stravolgere lo spirito della Costituzione ancora una volta, per favore no!