L’Unione europea dovrà affrontare nei prossimi mesi, oltre alla recrudescenza della pandemia, l’incremento dell’inflazione che, per quanto sia ritenuta da molti transitoria, continua a crescere. Nello stesso tempo la discussione attorno alla sorte del Patto di stabilità, che dovrebbe rientrare in funzione dal primo gennaio 2023, diventa sempre più decisiva per il futuro dell’Unione. E su questo secondo aspetto molto dipende dalle scelte concrete che assumerà il nuovo governo tedesco basato sulla coalizione “semaforo”.
Intanto il 24 novembre la Commissione europea ha avviato il ciclo del semestre 2022 per il coordinamento delle politiche economiche nell’ambito dell’Unione. Scorrendo il comunicato emesso lo stesso giorno da parte della Commissione, si ha l’impressione di un tranquillo ottimismo appena increspato da qualche preoccupazione sull’andamento dell’economia nei prossimi mesi. Il pacchetto d’autunno del semestre – che comprende l’analisi annuale della crescita sostenibile, i pareri sui documenti programmatici di bilancio dei Paesi della zona euro per l’anno a venire, le raccomandazioni strategiche per la zona euro e la proposta di relazione comune sull’occupazione della Commissione – si fonda sulle previsioni economiche d’autunno del 2021, “secondo le quali l’economia europea sta passando dalla ripresa all’espansione, ma si trova ora ad affrontare alcune nuove turbolenze”.
I commenti dei vari esponenti della Commissione, che lo stesso comunicato riporta, non sono affatto identici, ma riproducono in sostanza le antiche e note differenziazioni sia nelle diagnosi sia nelle terapie. Assai più serafico è quello di Valdis Dombrovskis, mentre elementi di maggiore preoccupazione emergono dalle parole di Paolo Gentiloni, soprattutto riguardo all’impennata inflazionistica.
In effetti gli ultimi dati indicano come e quanto i venti inflazionistici si siano rinvigoriti. Spiccano in particolare le notizie che il popolare tabloid “Bild”ha riportato qualche giorno fa, sottolineando che l’inflazione in Germania è salita “ai massimi da trent’anni”. L’andamento dei prezzi ha segnato un rialzo tendenziale in novembre pari al 5,2% (contro il 4,5% di ottobre), il che significa che si è realizzato il più alto incremento dal 1992, quale non si vedeva dai tempi della riunificazione tedesca. I prezzi alla produzione hanno avuto il più elevato aumento degli ultimi cinquant’anni. Il tutto accade in un vuoto di governo, anche se la coalizione “semaforo” sta cercando di abbreviarne la durata. Mentre il dato medio, riferito al mese di novembre dell’anno in corso, dell’incremento inflazionistico in Europa si attesta al 4,9%, che, secondo Eurostat, raggiunge un picco incrementale mai visto da quando esiste l’euro ed è stata redatta la serie storica.
Visti gli elementi di fatto, è ben difficile nascondersi dietro un ottimismo di maniera o addirittura un’illusione alimentata dal ben noto meccanismo del wishful thinking. Al riguardo, un commentatore spiritoso, nel penultimo numero di “Affari&Finanza”, stabiliva un’analogia con l’angosciata affermazione “no, non può essere lei” di quell’innamorato geloso che cerca di convincersi che “non è Francesca” nel famoso brano di Mogol e Battisti. È quindi perfettamente comprensibile che la discussione attorno alla incidenza, e soprattutto alla durata, del fenomeno inflazionistico diventi particolarmente accesa e preoccupata.
Fino a qualche tempo fa un’inflazione da eccesso di moneta in circolazione, come già alcuni temevano, non si era verificata, sia perché quest’ultima era rimasta in gran parte prigioniera del circuito finanziario, sia perché la produzione di merci a basso costo del lavoro, da parte dei Paesi emergenti o del Sud del mondo, aveva prodotto una concorrenza al ribasso costringendo i prezzi dei beni prodotti nei Paesi a capitalismo maturo a rimanere contenuti. Ma gli effetti della pandemia sull’economia reale stanno cambiando il dato circa le stime dell’inflazione e soprattutto circa la sua evoluzione. Alcuni respingono nettamente la minaccia; altri, pur non mirando alla introduzione di politiche restrittive come i “falchi”, ne sottolineano tuttavia le possibili evoluzioni e conseguenze; altri ancora agitano lo spauracchio dell’inflazione proprio per reclamare la fine delle politiche espansive, così come per scongiurare aumenti retributivi e salariali. È proprio il caso dei settori più aggressivi delle classi dominanti tedesche, pronti a denunciare come miccia per l’esplosione di una più alta e duratura spinta inflazionistica, la promessa elettorale dei socialdemocratici di portare il salario minimo orario a 12 euro entro la fine del 2022, rispetto agli attuali 9,6.
Christine Lagarde insiste sul carattere temporaneo e transitorio del fenomeno inflazionistico. Lo ha fatto anche di fronte ai dati tedeschi, in una recentissima e ampia intervista rilasciata alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, nella quale chiama in causa la fine del ribasso dell’Iva decisa per sei mesi dal governo tedesco come una tantum per contrastare gli effetti depressivi della pandemia sull’economia, dicendosi convinta di una riduzione della pressione verso l’alto dei prezzi nel corso del 2022. Uguale ottimismo, riferendosi al suo Paese e all’intero contesto europeo, ha espresso il ministro francese Bruno Le Maire. D’altro canto, Lagarde deve motivare le ragioni che hanno portato la Banca centrale europea, da lei presieduta, a mantenere inalterati i tassi che altri volevano immediatamente alzare, e il ministro delle Finanze della Francia non può certo sprofondare nel pessimismo a fronte della imminente presidenza francese del Consiglio della Unione europea.
Ma al di là dei vari atteggiamenti, la risalita dell’inflazione è un fatto reale. Concorrono a determinarlo fattori che risiedono tanto dal lato della domanda quanto da quello dell’offerta, a volte incrociandosi e sovrapponendosi tra loro. Le catene di approvvigionamento a livello globale si sono inceppate, se non addirittura in alcuni casi interrotte. La rarefazione delle forniture di alcune materie prime e di semilavorati strategici, come i semiconduttori; i costi di trasporto elevati e rallentati grazie alle misure di sicurezza anti-Covid (le navi cargo ferme di fronte a Los Angeles ne sono un’immagine potente); le tensioni geopolitiche sul fronte dell’approvvigionamento energetico e dei mezzi necessari alla transizione ecologica (da cui non sono estranei la situazione in Afghanistan e la tensione tra gli Stati Uniti e la Cina riguardo a Taiwan); la drastica diminuzione della occupazione, accompagnata dall’incremento della precarietà dei nuovi e vecchi posti di lavoro; l’appiattimento della curva dei tassi di rendimento tra titoli a breve e a lunga durata negli Usa, e non solo; l’improvvisa frenata della crescita cinese e il disastro, seppure finora contenuto, ma potenzialmente esplosivo a livello mondiale, di Evergrande, il colosso immobiliare del Dragone; l’enorme e rapido incremento del debito pubblico a livello mondiale: tutti questi elementi, richiamati qui un po’ alla rinfusa, sono le nuove cause dell’aumento dei prezzi.
La diminuzione dell’offerta a fronte di una domanda che si sta riprendendo, ovvero un fenomeno inconsueto quale la scarsità, è uno dei fattori più evidenti che concorrono all’aumento dei prezzi. Se guardiamo agli Stati Uniti, il costo medio di un’auto nuova ha toccato un record ogni mese negli ultimi sei mesi. A settembre ha superato la soglia di 45mila dollari per la prima volta nella storia. Non va meglio per le auto usate, il cui prezzo medio veleggia sopra i 28mila dollari, circa il 40% in più rispetto a prima della pandemia. Si sta profilando inoltre un nuovo fenomeno, non solo negli Usa: diversi cittadini, dopo la sospensione forzata del lavoro, almeno in presenza, rifiutano, ammesso che se lo possano permettere, di rientrare semplicemente nei loro precedenti ruoli, a meno di un incremento retributivo, il che costituisce un aumento del costo del lavoro.
Tutto ciò fa dubitare che il fenomeno dell’inflazione sia di breve durata. Anzi: si affaccia il pericolo della stagflazione, ovvero di una compresenza di bassa crescita con aumento contemporaneo dei prezzi. In Europa istituzioni e banche scommettono sul fatto che una simile prospettiva non sia possibile, data la consistenza degli attuali tassi di crescita. Ma se si considerasse quest’ultima, più propriamente, come un rimbalzo dopo i crolli dell’anno scorso – anziché come una crescita vera e propria, quindi non necessariamente destinata a stabilizzarsi –, il fantasma della stagflazione tornerebbe ad aleggiare. In fondo, per definire le condizioni della stagflazione, basta che si verifichi una situazione in cui l’inflazione staziona sopra il 3% e la crescita non supera l’1%.
Per queste ragioni, sul semestre europeo, si addensano non solo le nubi dell’inflazione, ma anche i problemi che derivano dalla sorte del Patto di stabilità e crescita. Valdis Dombrovskis sostiene che il Patto “ha funzionato bene”, e che la flessibilità di cui è già dotato ha retto la tempesta, per cui non servirebbe una modifica legislativa, ma al massimo “una comunicazione interpretativa”. L’opinione di Paolo Gentiloni, commissario europeo per gli Affari economici e monetari, è che il Patto “ha ottenuto risultati ambivalenti”, e dunque richiederebbe aggiustamenti, pur senza un cambiamento dei trattati e delle regole fondamentali: “Sappiamo che il disavanzo medio non tornerà sotto il 3% del Pil nel 2021 e nel 2022 – ha detto Gentiloni –, ma mi sembra che nel breve-medio periodo questa possa essere una regola che con qualche flessibilità non sia impossibile da rispettare […]. Non è possibile confrontare debito e deficit. L’aumento del disavanzo è probabilmente temporaneo. Lo stesso non può dirsi per l’incremento del debito”.
Poi i due si sono accordati intorno a una dichiarazione congiunta anodina, cercando di sterilizzare lo scontro tra “falchi” e “colombe”. A quanto ci è dato a oggi di sapere, il programma del nuovo governo tedesco mantiene una certa dose di ambiguità in materia. Riconosce la flessibilità mostrata dal Patto, ma afferma subito dopo che lo sviluppo futuro delle regole di bilancio deve permettere “la crescita, mantenere la sostenibilità del debito e provvedere a investimenti sostenibili e favorevoli al clima”. La reintroduzione tale e quale del Patto di stabilità, nel 2023, creerebbe la tempesta perfetta per congelare la ripresa, favorire il materializzarsi della stagflazione, e fare implodere l’Unione europea. Il tempo per decidere si sta restringendo e nel prossimo semestre – peraltro segnato dall’incertezza sull’esito delle elezioni presidenziali francesi – non si potrà far finta di niente.
Le principali ipotesi di modifica del Patto, tra quelle ammesse al tavolo di partenza, sono sostanzialmente tre: una revisione dell’entità annua della riduzione del debito sopra il 60%; una sorta di patto à la carte – proposto, tra gli altri, da Jean-Paul Fitoussi e ben visto dal ministro francese Bruno La Maire –, per cui ogni Paese, sulla base di una certificazione di un organismo indipendente (come il nostro Ufficio parlamentare di bilancio) stabilirebbe un proprio piano di rientro dall’extra-debito, sottoposto all’approvazione della Commissione e del Consiglio europei; una revisione – considerata la più improbabile – del tetto del 60% del rapporto debito/Pil, vista la sua inadeguatezza, pur senza modificare i trattati ma solo i protocolli, con l’unanimità degli Stati, ma saltando la ratifica dei parlamenti nazionali. Le ipotesi più forti come quella di un abbattimento o cancellazione del debito, almeno per quanto riguarda la parte accumulata durante la pandemia, sono naturalmente considerate eretiche e neppure prese in considerazione, se non in ambienti accademici.
Il dibattito intergovernativo nell’Unione appare arretrato non solo rispetto all’andamento dell’economia reale, ma persino nei confronti delle posizioni di personalità non ascrivibili al credo keynesiano. Per fare solo qualche esempio, l’ex ministro Giovanni Tria è stato netto nel dire, ora che ha le mani libere, che il fiscal compact era sbagliato fin dall’inizio (ma venne addirittura messo in Costituzione con la modifica dell’articolo 81). Secondo Klaus Regling – ex braccio destro di Theo Waigel, il “padre dell’euro”, e ora direttore del famigerato Mes – la regola della riduzione dell’extra-debito al 60%, nel giro di venti anni (che costringerebbe l’Italia a un surplus di bilancio del 6-7% annui), è del tutto irrealizzabile e insensata.
Dietro allo scontro su cifre e algoritmi, si nasconde infine il grande tema della riconversione ecologica dell’economia. Ma il flop di Cop26 non lascia grandi speranze che nel prossimo semestre europeo si facciano molti passi avanti in questa direzione.