Si è svolto a Rimini, il 27 e 28 novembre scorsi, un incontro seminariale per ricordare Lucio Magri, tra i fondatori del gruppo del Manifesto e del Partito di unità proletaria, a dieci anni dalla sua scomparsa. Quello che segue è il testo quasi integrale del mio intervento.
Questo seminario ha come titolo “Non postcomunista, ma neocomunista” che era il modo con cui Lucio Magri autografava Il sarto di Ulm, ultima sua fatica intellettuale. Io non ho problemi a definirmi “neocomunista”, pur essendo solito aggiungere l’aggettivo “italiano”, con il pericolo di incorrere in una consolazione autobiografica. Nel post-1989 molti di noi erano convinti di poter resistere a quel terremoto in quanto il “comunismo italiano” era indubbiamente diverso dagli altri, per storia, elaborazione e leadership (ruolo nella Resistenza, Gramsci, Togliatti, il “secondo” Berlinguer). Invece, anche noi abbiamo sulle spalle tutte le macerie del “socialismo reale” d’impronta sovietica. Per resistere di fronte al crollo del Muro di Berlino non bastava abbracciare nome e simbolo del vecchio Pci (questo è il vizio d’origine di Rifondazione comunista), occorreva ripensare una storia fatta di gloria e tragedia, innovando la cassetta degli attrezzi di fronte al mondo che cambiava in profondità.
Magri, con i suoi ultimi testi, ci ha dato la dimensione degli sforzi innovativi di teoria e di metodo che servono per definirsi neocomunisti. Cito, per esempio, la sua relazione al seminario della sinistra del Pci ad Arco nel 1991 che ho riletto di recente: è l’analisi puntuale, e per molti versi attuale, della portata politica che implica una riclassificazione programmatica della sinistra su dimensione internazionale e nazionale.
Magri è stato sempre un innovatore teorico sull’organizzazione sociale, sui diritti, sul welfare. E lo è stato anche nel corso della vicenda del fronte del “no” alla “svolta” occhettiana. Del resto, noi del gruppo del Manifesto delle origini siamo una variante del comunismo italiano, su cui si sono innestate le culture del ’68 e dei movimenti degli anni successivi: di questo sono persuaso.
Qualche volta, ho avuto aspri scambi di vedute con Magri nelle ultime conversazioni con lui. Come quando iniziai a riflettere sulla storia del socialismo europeo e scrissi due libri: uno sullo svedese Olof Palme, un altro sull’esperienza dei governi di Zapatero in Spagna. A Lucio non piaceva il mio entusiasmo per quelle esperienze. Una volta mi disse: “I tuoi amici socialdemocratici hanno ucciso Rosa Luxemburg e hanno votato i crediti di guerra in Germania”. Testimone di quel diverbio, che si concluse con me che lasciai dispiaciuto la piazza del Grillo, prima sede del Manifesto nel 1969, e poi casa di Magri, fu Famiano Crucianelli.
Avevo controbattuto a Lucio sostenendo la tesi che il welfare europeo era il grande lascito socialdemocratico da rinnovare e ripensare, mentre quasi nulla dell’esperienza sovietica è salvabile (non dimentico tuttavia i quaranta milioni di morti contro il nazifascismo, Stalingrado, il valore della “rottura” della rivoluzione d’Ottobre, l’influenza esercitata in Europa nei rapporti di forza per il conseguimento del welfare). Magri difendeva, nonostante tutto, gran parte dell’esperienza del comunismo storico. La divergenza stava in questo approccio. Il problema è che dallo stalinismo non si è usciti a sinistra, come avevamo sperato. Basti dare uno sguardo a cosa sono oggi i paesi dell’ex “socialismo reale” e la Russia (Cina e Cuba sono casi a sé).
Si sono intanto riaperti i grandi interrogativi della storia della sinistra: si può abolire il mercato o lo si deve democratizzare e regolare? Come andare oltre il keynesismo? Quale equilibrio tra Stato e mercato? Intanto, il socialismo rimette radici in Europa con i governi di Spagna, Portogallo, Germania, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia. Non avremo più governi monocolori socialdemocratici, bensì coalizioni con verdi e sinistra radicale di altra estrazione. Mi auguro che i partiti socialisti, sulla scia di queste contraddittorie esperienze di governo, si rinnovino intorno alle idee di una Europa politica e di una identità permanendo a sinistra. La sinistra per cui Magri e noi abbiamo sempre lavorato è del resto una sinistra di governo che deve fare il suo mestiere anche quando sta all’opposizione prefigurando la governabilità dei processi sociali.
Ambiente, pandemia, economia, valori, cultura: tutto richiama il bisogno di alternative. Abbiamo necessità di prospettive ideali di lungo periodo. A questo proposito, condivido e vorrei riattualizzare l’affermazione che fece Pietro Ingrao in un Comitato centrale del Pci dopo la “svolta” di Achille Occhetto: il comunismo resta un orizzonte necessario. Senza un orizzonte ideale la politica diventa politicantismo, solo gestione del presente il più delle volte di basso profilo. Aggiungerei una citazione di Eduardo Galeano, grande scrittore latinoamericano, che piacerebbe poeticamente a Ingrao: “Più ti avvicini all’orizzonte, più questo si allontana. Non può che essere così”. È il destino delle utopie.
Quanto all’identità della sinistra del futuro, quest’ultima non potrà che essere meticcia e plurale: socialista, ambientalista, neocomunista, dei diritti civili e sociali.