Il Venezuela sta uscendo dal tunnel della povertà e della violenza? Difficile dare una risposta a una domanda così impegnativa. Ma la partecipazione dell’opposizione alle elezioni amministrative di domenica scorsa, dopo quattro anni di assenza, la presenza di centotrenta osservatori inviati dall’Unione europea, l’aumento dell’affluenza alle urne, e infine una vittoria del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv) del presidente Nicolás Maduro, che nessuno ha contestato, lasciano ben sperare nell’apertura di una nuova fase nella storia drammatica del Paese caraibico.
Il successo dei socialisti è stato netto. Oltre all’ufficio del sindaco di Caracas, dei ventitré governatori, venti sono stati conquistati dal Psuv e tre dall’opposizione: Cojedes, Nueva Esparta e Zulia, i più popolosi del Paese. La consultazione elettorale è servita a eleggere anche 335 sindaci, 253 membri dei Consigli legislativi e 2.471 consiglieri. Un voto che ha coinvolto il 41,8% degli aventi diritto, contro il 31% delle elezioni per il parlamento dello scorso dicembre. Per Maduro la vittoria è il prodotto di “un buon raccolto e di un lavoro perseverante” che, sfruttando fino a prova contraria, la pacificazione delle relazioni con la destra, potrebbe portare a una revoca delle sanzioni economiche e la restituzione dell’oro depositato negli Usa, in Gran Bretagna e in Portogallo.
Quello che si profila all’orizzonte è dunque un quadro più favorevole a una normalizzazione, comunque sempre a rischio in un continente dove gli interessi di Washington hanno sempre la priorità. Fin dall’insediamento di Hugo Chávez, padre della rivoluzione bolivariana, gli Usa hanno accomunato il Venezuela all’Iran, considerandoli “una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti”. “Un mantra – denuncia il periodico dei padri comboniani “Nigrizia” – che precede e accompagna ogni aggressione contro un Paese sovrano, con l’obiettivo, attraverso le sanzioni, di distruggerne l’economia e di impoverirne la popolazione portandola alla disperazione, con l’intento di provocare un cambio di regime”.
È lecito interrogarsi intorno a come si sia arrivati a un quadro diverso, favorevole a una distensione più che mai necessaria in un Paese tra i principali produttori di petrolio, di sicuro il primo nell’emisfero occidentale, e che tuttavia registra un incredibile tasso di povertà – si vive con pochi dollari al mese –, che coinvolge tra l’80 e il 90% della popolazione. Dirimente è stato il cambio di atteggiamento degli Stati Uniti, del Canada e di una parte dell’Unione europea, che hanno deciso di porre fine a un gioco al massacro, in cui, a una pericolosa deriva autoritaria del regime, si contrapponeva l’avventurismo di una destra estrema, capeggiata fino a pochi mesi fa da Juan Guaidó, definito non senza qualche ragione golpista da Maduro, autoproclamatosi presidente della Repubblica nel 2019, con il riconoscimento frettoloso di quegli stessi che ora lo hanno abbandonato, a causa delle sue posizioni ormai irricevibili. Il suo partito, Voluntad popular, non era più disposto a seguirlo, e ha partecipato anch’esso al voto. Gli altri tre partiti di destra – Acción democrática, Primero justicia, Nuevo tiempo – avevano già preso la decisione di prendere parte alla competizione elettorale, dopo l’avvio del processo di pace dello scorso 13 agosto a Città del Messico, con il sostegno della Norvegia e dello stesso Messico, senza dimenticare il contributo tutt’altro che trascurabile di papa Bergoglio.
Sei i punti individuati in quell’occasione per rendere concreto il dialogo: elezioni libere e democratiche, un piano di aiuti alle fasce più esposte della popolazione, un rafforzamento dell’economia, la garanzia delle libertà civili, la rinuncia alla violenza politica e il rispetto dello Stato di diritto e della convivenza fra diverse politiche. Un’agenda difficile da concretizzare a fronte di altri tentativi di dialogo andati a vuoto. Ma stavolta le cose potrebbero andare diversamente. Del resto i politici venezuelani non hanno alternative di fronte al dramma che sta vivendo da anni la popolazione, aggravato dal drastico calo del prezzo del petrolio, unica risorsa del Venezuela. Da anni mancano i generi di prima necessità, e, come avviene in tutte le economie in crisi del Sud del mondo, il dollaro è diventato indispensabile per acquistare il necessario. L’alternativa è l’ingresso nella spirale della povertà, e solo chi ha un parente all’estero che invia le classiche rimesse riesce a tirare avanti.
A questa grave situazione di disagio si aggiunge inesorabilmente la pandemia, che ha provocato oltre quattrocentomila contagi e circa cinquemila decessi. Di fronte a questa tragedia, gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno fatto altro che boicottare l’arrivo dei vaccini, una decisione tutta interna alla politica dell’embargo. Se quei paesi sono, come il Venezuela, nel mirino del ricco Occidente, ecco scattare la rappresaglia. Secondo quanto riporta la testata online “Vatican News”, il ministro degli Esteri di Caracas, Jorge Arreaza, ha accusato la banca svizzera Ubs di avere “arbitrariamente bloccato” gli ultimi versamenti regolarmente effettuati dal suo Paese al Covax, organismo creato dall’Organizzazione mondiale della sanità per la distribuzione dei vaccini necessari al programma di immunizzazione della popolazione dei Paesi “terzi”. Un isolamento che si inserisce in un contesto geopolitico che vede contrapporsi, anche in questo caso, gli Stati Uniti, da un lato, e la Russia e la Cina, dall’altro. L’aiuto di Mosca e Pechino è diventato così vitale per la popolazione venezuelana.
La superpotenza asiatica, che non nasconde certo il desiderio di sostituirsi agli Stati Uniti nel controllo del continente latino-americano, ha così donato 2,5 milioni di dosi del vaccino Sinovac, appunto attraverso Covax. Un quantitativo che si aggiunge a quello ricevuto il 7 settembre scorso, con l’arrivo di 693.000 dosi. Un sostegno che ha permesso la vaccinazione del 70% della popolazione adulta venezuelana.
La povertà che affligge il Paese è lenita, per quanto possibile, dalla Chiesa cattolica, tradizionalmente presente in America latina. Don Angelo Treccani, missionario svizzero dal 1983 in Venezuela, esattamente nello stato di Guárico, nel centro del Paese, testimonia di questo impegno: “Quando sono arrivato la gente non faceva la fame. Ma ora la situazione è diventata gravissima – denuncia il sacerdote – sia dal punto di vista del cibo sia da quello delle medicine. Non funziona più niente, l’80% delle persone non mangia normalmente. Io tutti i giorni sono assediato da richieste di aiuto. Non si riesce a spiegare come si sia arrivati a questo punto”.
Come scriveva nel 2015 Gwynne Dyer, giornalista e scrittore canadese esperto di politica internazionale, “per il Venezuela la sfida è gestire una transizione che rispetti la democrazia, scongiuri la violenza e preservi alcune delle conquiste sociali”. Obiettivi che non sono stati raggiunti. La riuscita del dialogo tra governo e opposizione potrebbe riaprire una speranza, ma la strada è drammaticamente in salita.