Il cardinale Carlo Maria Martini meritava la fama che ha avuto e che ha. Tra i motivi di questa sua fama, c’è senza dubbio la frase: “La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni”. Seguendo il dibattito degli ultimi tempi si potrebbe però obiettare: la Chiesa a volte è in anticipo. Non è strano, per esempio, che sia stata proprio la Chiesa, soprattutto italiana, ad aver imposto nel nostro dibattito l’espressione “fine vita”? Strano… La Chiesa, che ci assicura che la vita non finisce con la morte, ci dice che la discussione sulla morte è meglio chiamarla sul “fine vita”. Eppure per loro dovrebbe chiamarsi “inizio viaggio”: o no? Ma ora tutti la chiamiamo così, fine vita. A cominciare dai credenti.
Uno no, però. In una recente intervista il teologo Hans Küng alla domanda: “Perché vuole porre termine alla sua esistenza non appena avvertirà i primi segni di demenza?”, ha risposto: “Perché sono del parere che la vita terrena non sia tutto. Ovviamente ciò si deve alla convinzione di fede secondo cui non mi dissolverò nel nulla. Capisco le persone che, non credendo nella vita eterna, hanno paura del non-essere. Io, invece, sono persuaso che non svanirò nel nulla, bensì entrerò in una realtà ultima”.
Fermamente convinto che la vita sia un dono di Dio asseriva, in quell’intervista, che “ciascuno di noi è responsabile della propria vita. E perché dovrebbe cessare di esserlo proprio nell’ultima fase dell’esistenza? La responsabilità esiste fino in fondo e io ho tutte le intenzioni di assumerla”. Leggendo, ho pensato che sbagliare la propria morte è un problema rilevante, come sbagliare la propria vita. Di entrambe in effetti ce n’è una sola. Hans Küng ovviamente conosceva bene la differenza tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva, lo spegnere le macchine e lo scegliere. E a questo riguardo, dell’eutanasia attiva, aggiungeva: “Vorrei che la Chiesa aiutasse l’uomo a morire anziché limitarsi a dargli l’estrema unzione. Si tratterebbe di aiutare a morire bene una persona che vuole dire addio alla vita”.
Pur privo del cosiddetto “dono della fede”, condivido in pieno le idee di Hans Küng, motivo per cui dissento totalmente dalle idee di Marco Cappato. Non dissento dalle sue azioni, ma dalla sua maglietta sulla quale si legge “di chi è la tua vita?”. L’intenzione è quella di indurci a sostenere che la nostra vita appartiene a ciascuno di noi, individualmente. Questa idea sostituisce “io” a “Dio”. Nella Chiesa cattolica, prima del Concilio, non si parlava mai di diritti umani, i diritti erano tutti e solo di Dio: in questa visione i diritti sono dell’io sovrano. Siamo monadi?
Per quanto io sappia, se una donna decide di abortire, la legge 194 – che io apprezzo – le offre o le offrirebbe il consultorio, per cercare insieme una strada alternativa, ammesso che ci sia. Altrimenti vorrebbe dire che il suo malessere personale, che può essere di tanti tipi, richiede un intervento terapeutico per impedire a quel malessere di devastarla.
Davanti a un uomo che soffre senza speranza di poter guarire ci sarebbero le cure palliative. Ne ho sperimentato l’efficacia quando è morta mia madre. Ma c’è anche chi, davanti a mali incurabili, cause di sofferenze assurde, non vuole morire, non accetta le cure palliative, vuole comunque provarci finché sembri possibile. L’ho visto nel caso di un mio amico. C’è poi chi, come Hans Küng, può andare incontro a esperienze come la demenza senile, che si rifiuta di affrontare. Qui serve l’eutanasia attiva, e sarebbe colpevole – verso una persona che non riesce neanche a immaginarsi in questa sfida – negargliela. Ma può esserci anche il caso di un uomo di sana e robusta costituzione fisica, solo al mondo, afflitto dal mal di vivere. Che si fa? Il male è suo, certamente; ma la società non dovrebbe esserne necessariamente e totalmente esclusa, indifferente. Forse potrebbe offrirgli un aiuto. Perché la sua vita potrebbe ancora essere un bene per qualcuno, se si potesse trovare il modo. Un simile consultorio potrà essere considerato inutile, una proforma che nessuno Stato sarebbe in grado di gestire davvero. Ma perché almeno l’idea non viene considerata? Siamo una società o siamo monadi?
Credo che l’uomo sia un animale relazionale e si differenzi dagli animali non per i bisogni, che abbiamo tutti, ma per i desideri. Se la morte diventa un desiderio, è impossibile sottrarsi all’esigenza di far sentire un ultimo soffio di calore a chi così la senta, offrendogli un aiuto. Ma non perché la vita è sua, piuttosto perché il suo malessere è nostro. Se davanti a prove dure è insopportabile negare, davanti a fallimenti o a stati d’animo a questi assimilabili, far sentire che la società ti considera, ti stima, credo che sarebbe dovuto. Per rendere chiaro, però, che questo è il mio intendimento, il mio stato d’animo come società verso di lui, un consultorio che gli offra di valutare insieme se mai possa esserci un’altra strada, almeno per un tentativo, dico che sarebbe dovuto. Ma interessa? L’io sovrano è interessato a questo? O ci obbliga a considerarci gli unici interessati a noi stessi, nella solitudine delle nostre scelte?