La coalizione “semaforo”, che si appresta a governare la Germania, continua ad accapigliarsi intorno alla futura composizione del governo e sull’attribuzione dei ministeri: in particolare lo scontro è molto duro su alcuni dicasteri chiave, come quello delle Finanze. Dopo i primi pourparler, le trattative ufficiali sono cominciate la settimana scorsa, e i partiti hanno affermato di avere l’obiettivo di chiudere il “contratto di governo” entro fine novembre.
La contesa intorno alle Finanze è particolarmente accesa, dato che si tratta del ministero più importante dopo il cancellierato. È un ministero estremamente politico e potentissimo, visto che non solo pianifica la gestione delle risorse finanziarie, ma è anche un riferimento obbligato per gli altri ministeri – alla faccia della sbandierata “collegialità” delle decisioni che vengono prese. Il ministro delle Finanze è dotato, in Germania, di una sorta di “superpotere”: può esercitare un diritto di veto nei confronti delle proposte avanzate dagli altri colleghi. Sebbene sia stato spesso rilevato dai politologi come questo diritto di veto sia in realtà una “spada dal filo smussato”, rimane la possibilità, per il detentore della poltrona, di bloccare processi e progetti che non lo convincono.
Basterebbe pensare al peso e all’importanza che hanno avuto i precedenti ministri degli ultimi dodici anni, Wolfgang Schäuble e lo stesso Olaf Scholz. Un’importanza non solo a livello nazionale ma anche internazionale, soprattutto europeo. Il ministero delle Finanze è infatti il vero “ministero dell’Europa”, come ha ben mostrato tutto il periodo della gestione di Schäuble, arcigno difensore del Patto di stabilità; e come ha confermato lo stesso Scholz le cui scelte da ministro hanno fortemente influenzato le politiche europee in tempo di pandemia.
Non si tratta quindi unicamente di una questione di prestigio, ma di un ministero che vale più degli altri nella partita delle poltrone, tuttora apertissima, che vede in competizione i due partiti più piccoli della coalizione – i verdi e i liberali –, ciascuno dei quali pretende di giocare il ruolo di ago della bilancia. Secondo quanto riferiva qualche giorno fa la “Frankfuter Allgemeine”, i verdi ambirebbero ad avere almeno sei ministeri: oltre a quello delle Finanze, Traffico, Ambiente, Agricoltura, Famiglia e Trasformazione digitale. Ma le Finanze sono l’obiettivo prioritario, già da tempo dichiarato, anche dei liberali.
A leggerlo attentamente, in effetti, nel documento programmatico scaturito dall’intesa, redatto e sottoscritto dai tre partiti della coalizione, spiccavano alcune considerazioni restrittive rispetto all’aumento della spesa pubblica, che apparivano chiaramente ispirate dai liberali. Il loro ambizioso leader, Christian Lindner, non ha mai nascosto di essere un rigorista in economia, e di non vedere di buon occhio l’allargamento dei cordoni della borsa, tanto a livello nazionale quanto a livello europeo; ha spesso dichiarato di aspirare al ministero delle Finanze come obiettivo non solo personale, ma come traguardo da conseguire per tutto il suo partito, che si troverebbe di fronte a un’occasione storica per realizzare il progetto di una “modernizzazione rigorista”.
Per contro, i verdi propongono la candidatura di Robert Habeck, co-presidente del partito con Annalena Baerbock e governatore dello Schleswig-Holstein. È chiaro che l’orientamento dei due candidati è molto diverso, e che dal prevalere dell’uno o dell’altro deriverebbero politiche economiche differenti. Lindner non fa mistero della sua fedeltà all’ordoliberismo bancario, mentre Habeck ha più volte parlato di una nuova politica economica tutta mirata alle questioni ambientali e al contenimento del riscaldamento globale.
Il mondo imprenditoriale appare diviso: la parte più conservatrice, ovviamente, è schierata a favore della candidatura Lindner; ma molte realtà aziendali più innovative e moderne, soprattutto nel settore bio-medico, parteggiano per Habeck che – come governatore dello Schleswig-Holstein – avrebbe dato prova di “visione del futuro”, appoggiando il settore e incoraggiando la formazione di start-up che ora lo sostengono.
Nei media e sui social la battaglia è senza esclusione di colpi: qualche giorno fa si era diffusa la notizia, rivelatasi falsa, che Habeck avesse ritirato la propria candidatura al super-ministero per permettere ai verdi di ottenere le altre poltrone ritenute prioritarie; mentre Lindner, per guadagnarsi maggior favore nella opinione pubblica, ha ribadito la necessità di ridurre le tasse e di tenere una linea dura nei confronti dei partner europei, agitando lo spettro dell’inflazione. Ma proprio le competenze economiche di Lindner sono state messe in dubbio, al di là delle sue dichiarazioni che sono apparse a molti commentatori vuote e superficiali, esternazioni di uno showman impegnato a far vedere che il suo partito può tenere testa alle due componenti di sinistra della coalizione.
Lindner non è Schäuble che, con la sua preparazione, sapeva motivare anche le scelte più discutibili e sgradevoli; lo ricordiamo al tempo della crisi greca nel 2015, durissimo e criticabile portatore di una posizione tedesca chiaramente individuata, ma in ogni caso fermo in una prospettiva europea. La caratura politica di Lindner appare molto più modesta, e sicuramente egli è molto meno convinto europeista di quanto non fosse Schäuble. Certo, nemmeno Scholz è un economista, ma nel periodo in cui ha retto il super-ministero ha mostrato bene cosa può significare per l’Europa un ministro tedesco delle Finanze in grado di comprendere le fragilità della eurozona e di intervenire energicamente. Senza la disponibilità di Scholz, non si sarebbero fatti né “Next Generation Eu” né i più recenti interventi.
Intorno alla poltrona del ministero delle Finanze tedesco si gioca quindi una partita importantissima per il destino dell’Europa. La fase che stiamo attraversando – in cui divengono centrali questioni come quella climatica e quella della ripresa economica, per non parlare della gestione della pandemia – è evidentemente delicatissima, e gli equilibri attuali non possono certo essere dati per scontati. Il futuro dipende dalla relazione che si verrà a creare tra la Germania e gli altri Stati di maggior peso. Un ministero delle Finanze tedesco orientato, sia nel Paese sia a livello europeo, al ripristino dei limiti di spesa che esistevano prima del Covid-19 rischierebbe di aggravare una più generale crisi di governance della eurozona, ostacolando la campagna di investimenti su larga scala che appare oggi sempre più necessaria. Starà alla capacita politica di Scholz di gestire l’assegnazione della contesa poltrona, tenendo presente che la deroga al Patto di stabilità scade alla fine del 2022, e che, nonostante l’agitarsi e lo strepitare dei liberali (terzi per risultato elettorale nella coalizione), il partito di maggior peso è quello socialdemocratico.