Complice la tradizionale presentazione del libro natalizio di Bruno Vespa, c’è stato un annuncio deludente e a sorpresa di Enrico Letta, segretario del Pd: “La legge elettorale non cambierà perché il parlamento non è in grado di trovare un’intesa su una nuova legge”.
È una dichiarazione di resa (forse nel tentativo di aprire una trattativa con il centrodestra su chi sarà il prossimo inquilino del Quirinale dal gennaio 2022). Con Letta, a presentare il volume di Vespa, c’era Giorgia Meloni che ha subito detto di essere d’accordo con il suo interlocutore.
“Se dovessi scommettere qualcosa – ha aggiunto il leader piddino – lo farei sul fatto che rimane l’attuale legge elettorale. Ritengo che questo parlamento abbia difficoltà a cambiare molte cose, a discutere, trovare intese, trovare il clima giusto”. Facile la conclusione. Unico sussulto, quando ha detto che in linea teorica bisognerebbe almeno modificare qualcosa: “A me non piacciono le liste bloccate, non mi piace la fedeltà al capo che ti porta in parlamento e non al territorio”. Infatti, con la legge elettorale in vigore, l’elettore non dispone della possibilità di esprimere una preferenza sul candidato che più gli aggrada. Tutto è nelle mani dei partiti che fanno le liste: si è eletti, secondo le percentuali, a scalare nell’ordine con cui si sono compilate le liste.
Letta è stato molto sbrigativo sul tema. Non ha fatto autocritica sul taglio dei parlamentari, chiesto e ottenuto a suo tempo dai grillini con referendum ad hoc nel 2020, che confermò quanto deciso dalle Camere. Il Pd promise in quell’occasione che il ridisegno dei collegi elettorali e l’aggiornamento della legge sarebbero avvenuti con apposita nuova legge elettorale. Un altro impegno disatteso?
I deputati, dalle prossime elezioni in poi, saranno 400 (non 630) e i senatori 200 (non 315) in nome di un astratto risparmio sui costi della politica, ottenuto dai 5 Stelle quando erano ancora un movimento populista. Il Pd, in quella fase, concesse loro una cambiale in bianco sul tema velenoso della legge elettorale e del numero dei parlamentari a prescindere da una riconsiderazione d’insieme sul circuito politico-istituzionale e democratico.
Molto disponibile Giorgia Meloni a trovare un accordo su quanto detto da Letta:“Enrico si assuma l’impegno di dire che il proporzionale non passa. Noi siamo per il maggioritario. Se non ci sta il Pd, il proporzionale non ci può stare”. La leader di Fratelli d’Italia ha chiuso così il suo intervento: “Credo nella democrazia diretta, credo che vada riaperto anche il tema del presidenzialismo in Italia”. Letta non ha raccolto l’assist, per fortuna. E si capisce l’assenso di Meloni sul non toccare la legge elettorale, perché il mix attuale tra maggioritario e proporzionale potrebbe favorire, a suo dire, l’alleanza di coalizione tra lei, Salvini e Berlusconi. Lo stesso potrebbe avvenire nel centrosinistra – pensa Letta – che si è pronunciato per un’alleanza “larga”, possibilmente dai grillini a Calenda, fino a Sinistra italiana.
Ma cosa prevede la legge elettorale in vigore dal 2017, chiamata nel gergo giornalistico “rosatellum” facendo il verso al principale proponente e firmatario Ettore Rosato (ex deputato piddino passato a Italia viva)? Il 37% dei seggi alla Camera e al Senato è assegnato con sistema maggioritario, a turno unico e senza preferenze; il 61% dei seggi è ripartito in modo proporzionale tra le coalizioni, a livello nazionale per la Camera e a livello regionale per il Senato. Il 2% dei seggi è infine assegnato ai parlamentari eletti nelle circoscrizioni estere. La soglia di sbarramento per accedere in parlamento è prevista al 3%.
Cosa potrebbe accadere riadattando questo modulo di legge al nuovo numero di parlamentari nessuno lo sa di preciso. Poi bisognerà di certo ridisegnare i collegi elettorali. Una legge elettorale così fatta favorisce infine l’ingovernabilità o il suo contrario? Di questo – dopo tanta retorica sulle riforme istituzionali durata decenni – non si discute più, almeno per ora. Lasciare le cose come stanno in materia di legge elettorale – è l’ultimo quesito – porterebbe a una riedizione di un anomalo governo Draghi che molti vorrebbero anche dopo le prossime elezioni? Il Pd forse si augura proprio questo.