Il gruppo armato di ispirazione maoista, Sendero luminoso, che alcuni decenni fa aveva insanguinato il Perù – colpendo anche contadini e gente comune con una violenza che ricordava quella dei Khmer rossi in Cambogia – ha messo in crisi il presidente Pedro Castillo? Pare proprio di sì, visto che il capo dello Stato (eletto il 28 luglio scorso dopo aver battuto di misura l’avversaria Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori) è stato costretto, il mese scorso, a far dimettere il primo ministro Guido Bellido, ingegnere, economista ed esponente del partito Perú libre, capeggiato da Vladimir Cerrón, perché accusato di aver commemorato nel 2017 la ex guerrigliera Edith Lagos.
Bellido, in realtà, parlando della formazione maoista di Abimael Guzmán (deceduto in prigionia nel settembre scorso) ne aveva stigmatizzato l’operato, considerandolo “una strada sbagliata di alcuni peruviani di fronte alla crisi economica e sociale del Paese”. Ma la sua presenza a quella cerimonia era stata ritenuta imbarazzante. La sua fuoriuscita – ed è la vera ragione di questa scelta politica – sposta a destra l’asse dell’esecutivo, portando fuori dal governo un partito il cui supporto era stato determinante nella vittoria del presidente contadino e maestro.
Le conseguenze di questo cambiamento di rotta sono chiare: a livello di relazioni internazionali verrà sicuramente meno il sostegno di Lima al presidente venezuelano Nicolás Maduro; un sostegno che, del resto, era stato già oggetto di contestazione da parte del viceministro degli Esteri, Luis Enrique Chávez. E – cosa più preoccupante – potrebbe venir meno la nazionalizzazione, chiesta dall’ex premier, della miniera di gas di Camisea, situata in territorio indigeno e gestita da un consorzio di imprese, che consentirebbe il trasferimento dei profitti dalle casse dei privati a quelle dello Stato.
Bellido ha denunciato con forza l’estromissione. Si tratta – ha detto – di una decisione dei “poteri finanziari e imprenditoriali che vogliono governare il nostro Paese alla stregua di una organizzazione che criminalizza ogni oppositore politico”. Una decisione, quella di Castillo, finalizzata, come dicevamo, a moderare l’operato di un governo inviso ai poteri forti. Tanto che al posto di Bellido è stata nominata un’esponente del Frente amplio, Mirtha Vázquez, avvocata, ambientalista, attenta alla tutela dei diritti umani, ex presidente del Congresso, originaria di Cajamarca e deputata dal 2020. Una nomina che, se da un lato preoccupa perché lascia presagire appunto un allineamento alle tradizionali politiche liberiste che tanti danni hanno provocato al continente, dall’altro è una risposta alla misoginia e all’omofobia di Bellido, che caratterizza – sia pure in forma minore – anche Castillo.
Il coinvolgimento femminile nell’esecutivo non si ferma qui: nel rimpasto voluto dal presidente, che ha coinvolto sette ministeri su diciannove, le donne sono passate da due a cinque. A pagare anche il ministro del Lavoro Íber Maraví, accusato di aver partecipato a un attentato terroristico quarant’anni fa, e di aver fatto parte del Movadef, braccio politico di Sendero luminoso. Accuse sempre respinte da Maraví. Al suo posto è subentrata Bettsy Chávez. All’economia è stato riconfermato il moderato Pedro Francke, gradito ai mercati, così come Walter Ayala alla Difesa.
Questi cambiamenti favoriscono sicuramente un maggior dialogo con un’opposizione comunque poco presentabile – la figlia dell’ex dittatore è stata più volte in carcere negli ultimi due anni, accusata di riciclaggio di denaro –, al fine di “porre il Perù al di sopra di ogni ideologia e ogni posizione di partito”, come sostiene il presidente. Questo tentativo di rendere più coeso il governo, e dunque evitare un nuovo ricorso alle urne, in un Paese nel quale in cinque anni sono cambiati altrettanti presidenti, non è esente da ostacoli. Una parte non ha gradito la svolta moderata di Castillo, ed è stato annunciato che “il gruppo parlamentare di Perù libre non appoggerà il nuovo gabinetto”. A tranquillizzare Castillo, però, è lo stato precario in cui versa l’opposizione, anch’essa particolarmente frammentata e dunque con pochi elementi di ricatto nei confronti dell’inquilino della Casa di Pizarro.
La sfida del presidente Castillo, già nota al momento del suo insediamento, è enorme e ha come primi obiettivi la sconfitta, o più verosimilmente un ridimensionamento, della corruzione; la lotta contro la pandemia che ha colpito il Perù in modo particolarmente pesante; la riduzione delle disuguaglianze sociali e la fine delle persecuzioni che subiscono le popolazioni indigene, al pari di quanto succede in Brasile e in Colombia. “Siamo diventati il Paese del male minore – scrive, con riferimento alla corruzione, Jaime Bedoya, editorialista de “El Comercio” – e duecento anni di vita repubblicana non sono bastati per vaccinare il funzionario pubblico peruviano contro l’indecenza. Perfino il Congresso ha votato in febbraio una riforma costituzionale che prevede l’abolizione dell’immunità parlamentare”.
La corruzione è un cancro che colpisce tutto il continente latinoamericano al pari delle diseguaglianze sociali, che peraltro non sta risparmiando i più ricchi paesi occidentali. Secondo “Live”, magazine dell’Università di Padova, e il World Inequality Database – la piattaforma che calcola l’evoluzione storica della distribuzione mondiale della ricchezza –, il Perù ha gli indici più alti di ridistribuzione ineguale del reddito, secondi solo a quelli del Cile, del Messico e del Brasile. Malgrado una crescita economica importante, circa il 10%, oltre la metà della ricchezza nazionale, il 53%, è nelle mani del 10% della popolazione. Il salario medio è di 930 sol al mese, pari a 215 euro, mentre, nell’area metropolitana della capitale Lima, sale a 1607 sol, pari a 370 euro.
Questi dati, con tutta evidenza già drammatici, sono enfatizzati da una pandemia che rende la vita più difficile soprattutto a coloro che approfittano di quei lavori informali che permettono agli ultimi del Paese andino di mettere insieme il pranzo con la cena. Con oltre duecentomila morti, il Perù ha il triste primato di decessi in rapporto alla popolazione. L’altra spina nel fianco dei peruviani è il narcotraffico, che comporta, oltre alla violenza connaturata a questa terribile attività criminale, la distruzione sistematica della foresta per fare spazio a delle piccole piste di atterraggio di aerei adibiti al traffico della droga. Poco o nulla possono fare le povere popolazioni indigene. Sempre secondo “Live”, sette nativi sono stati uccisi per aver tentato di difendere le loro terre. L’allarme è stato lanciato dai vescovi peruviani, spesso gli unici o quasi a preoccuparsi della vita degli indigeni. In una nota, i prelati denunciano “il recente assassinio di Estela Casanto, leader e fondatrice della comunità indigena di Shankivironi, nella regione di Junín. Dimostrazione della mancanza di protezione nella quale si trovano queste persone”. Verrebbe da dire, con una punta di amarezza, che un Paese che ha dato i natali a scrittori come César Vallejo, José María Arguedas, e Mario Vargas Llosa, si trova purtroppo guidato da una classe politica inadeguata e corrotta.