Sulle pensioni il governo Draghi si gioca molto. Ma in ballo non c’è solo il piano della contingenza politica, diciamo della cronaca. C’è da considerare anche un piano più generale. Di prospettiva. Ogni volta che la politica mette le mani sulle pensioni si manifestano due effetti: da una parte, si mette a rischio la stabilità dei governi (nella storia contemporanea ne sono caduti molti proprio a causa delle scelte sulle pensioni); dall’altra, si rimettono inevitabilmente in discussione i principi di base del patto sociale novecentesco. Quando si parla di pensioni, di rapporto tra giovani e anziani, di giustizia sociale si parla di welfare state, di politica in senso alto. Con questo articolo cercheremo di fare il punto solo sugli scenari della contingenza, mentre su quelli di prospettiva sarebbe interessante avviare una riflessione più profonda di cui oggi intravediamo solo i titoli.
Martedì 16
Cominciamo dalla contingenza. Ovvero dall’attualità. Martedì prossimo, 16 novembre, i sindacati confederali sono stati convocati a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio, Mario Draghi. “Una convocazione importante”, come ha detto il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, che era arrivato a minacciare lo sciopero generale nel caso in cui il governo fosse rimasto sordo alle richieste delle confederazioni e dei sindacati dei pensionati.
Per la Cgil questa convocazione è una prima importante risposta alla pressione dei sindacati sull’esecutivo e sul parlamento. Ma è ovvio che, se si vuole “fare davvero sul serio”, si dovrà verificare la volontà di affrontare in modo equo il problema dello “scalone” del gennaio 2022 (il rinvio dell’uscita dal lavoro per migliaia di lavoratori), che si sta per determinare con la fine di “quota 100”, l’esperimento voluto in particolare dalla Lega di Matteo Salvini, cioè di modificare la legge Fornero permettendo le uscite anticipate con un mix di anni anagrafici e anni contributivi. E ovviamente non c’è solo da risolvere il problema contingente. Si tratta di ripensare completamente la cosiddetta legge Fornero del 2012, che ha riformato il sistema previdenziale italiano nella logica del taglio dei costi pubblici. Una riforma pagata dalle lavoratrici e dai lavoratori che sono stati inchiodati ai loro posti di lavoro per risparmiare sui costi della previdenza pubblica: oggi l’Italia ha il record in Europa dell’età più alta per andare in pensione.
La legge di bilancio è intoccabile?
Per quanto riguarda l’urgenza degli interventi di modifica alle norme previste dalla legge di bilancio, la prima cosa da fare è quella di riconsiderare “quota 102”, la proposta del governo, perché così com’è stata formulata non funziona. Con quello schema proposto – ha spiegato il segretario confederale della Cgil con delega alle politiche previdenziale, Roberto Ghiselli – “potranno andare in pensione il prossimo anno non più di 8500 persone”. Se si considera che con “quota 100” erano circa 110.000 le persone che uscivano, è evidente che questa soluzione non è una risposta efficace al tema ‘scalone’, anche perché continuano a essere esclusi i nati dal 1960 in avanti. “Quota 102” pertanto va modificata”.
Il sindacato chiede poi correzioni anche alle norme sull’Ape sociale (un altro escamotage per permettere uscite anticipate impossibili con la Fornero): dovrebbe essere estesa anche a tutti i disoccupati di lunga durata o a chi è in cassa integrazione senza prospettive di rientro. Altro argomento è quello della diversità dei lavori che ovviamente non possono essere equiparati. Un conto è lavorare nei campi, in una fonderia, sui ponteggi dei cantieri, altro conto è lavorare in ufficio o comunque svolgere mansioni meno a rischio.
Per Cgil, Cisl, Uil sul tema delle attività gravose è stato fatto un buon lavoro da parte della commissione appositamente istituita e affidata al coordinamento di Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro con i governi di centrosinistra. Essere passati da 57 a 221 mansioni considerate gravose è un fatto significativo. Ma i sindacati chiedono di ridurre a trenta gli anni di contributi necessari per accedere all’Ape sociale come lavoratori gravosi, a iniziare dall’edilizia, campo minato per eccellenza dei lavori usuranti.
Il nuovo round
Non sappiamo che cosa produrrà la riunione di martedì. Ma è ovvio che serve prima di tutto a riaprire un dialogo e a mettere le basi per il lavoro che andrà fatto il prossimo anno, al fine di arrivare a scrivere la riforma. Un primo segnale di disponibilità del governo è arrivato con la conferma di “opzione donna” che fissa l’anticipo pensionistico per le dipendenti a cinquantotto anni (cinquantanove per le autonome), quando la prima versione della manovra fissava l’età a sessant’anni. L’idea di Palazzo Chigi è un’uscita dal lavoro a sessantadue anni, con il sistema contributivo per tutti, abbandonando così il sistema misto di cui molti potrebbero ancora godere e soprattutto le varie “quote”, preferendo un ritorno alla legge Fornero ma con maggiore flessibilità, come ha confermato il ministro del Lavoro, Andrea Orlando: “Tornare al contributivo non significa necessariamente tornare alla Fornero com’era: lo sforzo che si può fare è mantenere l’impianto contributivo ma costruire elementi di flessibilità che consentano di evitare alcune rigidità e andare così incontro ad alcune delle istanze del sindacato”.
Da parte loro, i sindacati dicono però un secco “no” al ritorno alla Fornero e un “no” a un sistema contributivo per tutti, chiedendo invece una maggiore flessibilità. In una piattaforma unitaria consegnata a Palazzo Chigi e a Montecitorio, Cgil, Cisl, Uil propongono un’uscita a sessantadue anni oppure con quarantuno anni di contributi a prescindere dall’età.
La richiesta dei sindacati, a parte le prime aperture su “quota 102” e le norme per donne, non sembra poter essere recepita dal governo, che guarda al quadro generale dei conti pubblici. Da questo punto di vista c’è molta preoccupazione.
Pensioni legate al Pil
Le insidie dei prossimi mesi sono state enfatizzate dalla Commissione europea: la crescita resta sempre molto forte, però le previsioni per il 2022 sono soggette non solo alle dinamiche della pandemia e alle possibili nuove eventuali misure di restrizione, ma anche alla difficoltà di reperire tutti i profili professionali che servono alle imprese in questa fase di ripartenza.
L’ulteriore elemento che rende ancor più a rischio le prospettive di crescita è il forte aumento dell’inflazione e le nuove tensioni salariali che produrrà col nuovo anno. Il quadro di incertezza economica si riflette direttamente sulle scelte in tema di pensioni e in generale di welfare state. In particolare per le pensioni, dopo le riforme degli anni Novanta, il legame tra crescita del Pil e garanzia dei livelli previdenziali è diretto. La discussione sulla riforma che dovrà sostituire la riforma Fornero (scusate la ripetizione) sarà inevitabilmente condizionata dagli elementi economici considerati “oggettivi”. L’Italia, per esempio, è accusata di spendere troppo in pensioni, il 16% del Pil contro un 12-13% degli altri Paesi europei. Ma su questo punto è necessaria maggiore attenzione perché, come dicono i sindacati e vari studiosi della materia, il raffronto tra le diverse spese previdenziali europee è falsato. Negli altri Paesi spesa previdenziale e spesa sociale (assistenza) sono due voci separate nel bilancio dello Stato. Da noi invece – per una consuetudine ragionieristica – fanno parte della stessa voce, che appare quindi superiore a tutte le altre.
Ma è giusto che lo Stato paghi le pensioni?
Arrivati a questo punto, ovvero a quello della “sostenibilità economica” del sistema previdenziale pubblico (l’unica bussola che è stata sempre usata negli ultimi venti anni), ci rendiamo conto del paradosso. Mentre si fa riferimento ai “conti”, all’equilibrio di bilancio delle varie voci che compongono la spesa pubblica, si passa immediatamente al piano politico. E allo scontro tra culture diverse e spesso opposte. Gli ultimi venti (trenta?) anni sono stati egemonizzati dal cosiddetto neoliberismo. E molti partiti del centro destra si fanno promotori di questi valori basati essenzialmente sull’individualismo competitivo in un crogiuolo di contraddizioni filosofiche: Salvini che invoca lo Stato repressivo contro i migranti e poi parla di “flat tax”, una dottrina fiscale che potrebbe minare proprio lo Stato come soggetto di attuazione del welfare. Nel mondo accademico e dei circoli economici che contano c’è anche chi pensa che sia venuto il momento di distruggere il castello costruito alla fine dell’Ottocento da Otto von Bismarck, che inventò una pensione sicura per i dipendenti pubblici. Per molti ultrà che credono nel potere assoluto del mercato, oggi lo Stato dovrebbe ritirarsi dal campo delle pensioni, della sanità e dell’assistenza. Dev’essere l’individuo singolo a costruirsi il suo futuro risparmiando e soprattutto investendo i suoi soldi in Borsa e nelle assicurazioni private.
Nei prossimi mesi – nei prossimi anni – la sfida per la politica sarà alta. Ripensare il welfare significa in fondo anche ripensare le fondamenta dell’idea socialista.