La ministra delle Finanze svedese, Magdalena Andersson, è diventata nei giorni scorsi presidente del Partito socialdemocratico e si appresta a succedere come premier a Stefan Löfven, che guida un esecutivo appoggiato da centristi, ecologisti e Partito della sinistra. Una formula politica, questa, che ha avuto lo scopo (dopo le elezioni del 2018, in cui i socialdemocratici non hanno raggiunto più del 28% dei voti) di mettere in un angolo i conservatori e l’estrema destra. La notizia potrebbe rallegrarci, perché – perfino in una Svezia che è molto avanti nel protagonismo femminile nella vita sociale – si tratta della prima volta di una donna.
Ma c’è un ma. Lei stessa si è autodefinita la più tirchia dei ministri europei, avendo schierato il suo Paese con quel gruppo dei cosiddetti “frugali” che hanno opposto molte difficoltà alla realizzazione del piano post-pandemico europeo: quello, per intenderci, che sta dando un sacco di soldi all’Italia. Le ragioni di tale avarizia furono illustrate da Andersson in un’intervista: come potremmo spiegare ai nostri elettori e ai nostri pensionati, i quali pagano tasse elevatissime, che il loro denaro deve andare a Paesi come la Spagna e l’Italia in cui ci sono tasse più basse o una forte evasione fiscale? La domanda non fa una piega. Solo che la soluzione del problema non sta nell’essere “frugali”, quanto piuttosto in un’armonizzazione delle politiche fiscali all’interno dell’Unione europea.
Ancora una volta, la posta in gioco non consiste in un ritorno alla socialdemocrazia reale del passato, nella riproposizione pura e semplice, da parte dei principali partiti di sinistra del nord Europa, di una politica di protezione pubblica e – contro la smania delle privatizzazioni degli scorsi decenni – di un rafforzamento dello Stato sociale, però su basi ristrettamente nazionali; no, la scommessa è oggi quella verso un socialismo possibile in una prospettiva sovranazionale, con una maggiore, e non minore, integrazione europea. Se non si comprende questo, si finisce in una sorta di “isolamento nordico” (alla maniera della Danimarca, che pure è retta da una donna socialdemocratica), senza minimamente misurarsi con le sfide del presente.
Al fondo di questo tipo di chiusura o arroccamento c’è il timore di un avanzamento ulteriore, nelle prossime elezioni del 2022, dell’estrema destra. Stavolta i rischi di un’alleanza di governo tra questa e i conservatori sono molto concreti. La socialdemocrazia svedese, sotto la guida di Andersson, proverà perciò a risalire nei sondaggi, che al momento la accreditano anche di qualche punto più basso di quel 28% che fu già un record negativo. Ma la questione, al solito, è quella di presentarsi non soltanto in una chiave difensiva, rincorrendo la destra e l’estrema destra sul suo terreno, ma con un volto che ritrovi un po’ di quello spirito, insieme pragmatico e utopico, che fu già di Olof Palme, l’indimenticato leader assassinato a Stoccolma nel 1986.
La Svezia è un Paese che ospita circa 450mila stranieri, tra immigrati “economici” e rifugiati, su una popolazione di poco più di dieci milioni di abitanti. Potrebbe dunque fermarsi e dire “abbiamo già dato…”. La “frugalità” comincerebbe da qui. Tuttavia, quando si va a Stoccolma e si vedono donne velate con vestiti scuri fino ai piedi, che lavorano nella metropolitana come perfette svedesi, senza dover rinunciare a nulla delle loro tradizioni e della loro religione, si comprende cos’è, cosa potrà essere, l’Europa di domani. Per la Svezia si tratta di andare avanti su questa strada.