Shoah è un termine ebraico reso popolare soprattutto a partire dal film documentario omonimo del 1985 (della durata di oltre nove ore) a firma di Claude Lanzmann. Nonostante l’importanza di questo lavoro – costruito sulle testimonianze di ex nazisti ed ex prigionieri dei campi di concentramento –, il suo titolo è fuorviante. La traduzione corrente è infatti quella di Olocausto, che vorrebbe dire “sacrificio” in senso religioso. Il che appare fuori luogo quando si discorre di antisemitismo, deportazione, lavoro forzato, programmazione dell’omicidio di massa. Lo sterminio non ha altro termine appropriato se non quello di sterminio.
Un elemento ulteriore che, in maniera sottile e del tutto involontaria, ha contribuito negli anni a deviare l’opinione pubblica dalla specificità dei crimini perpetrati da Hitler e dalla sua banda di assassini – benché se ne parli di continuo ed essi siano perfino eccessivamente presenti nei mezzi d’informazione – è il titolo del libro dedicato da Hannah Arendt al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme, La banalità del male. Arendt – che in precedenza aveva utilizzato l’espressione kantiana di “male radicale” – intendeva riferirsi alla circostanza che non occorreva essere radicalmente cattivi, o sadici, per prendere parte allo sterminio; era sufficiente collocarsi all’interno di un’organizzazione burocratico-amministrativa, essere l’anello di una catena, per sentirsi del tutto a posto con la coscienza. A risultare impedita, nel soggetto co-autore dei misfatti, sarebbe stata l’importante capacità di elaborazione di un giudizio autonomo. Da qui la “banalità”. Senza averne l’intenzione, però, Arendt veniva così in un certo senso ad avvalorare la tipica difesa dei nazisti nei processi, quella di essere degli esecutori di ordini superiori. Eichmann addirittura, in modo paradossale (come si può vedere nel documentario di Eyal Silvan del 1999, Uno specialista, che presenta le immagini del processo), si professava discepolo di Kant, un seguace del suo “imperativo categorico”, che lo avrebbe indirizzato verso un’obbedienza assoluta nei confronti della legge e dell’autorità.
Certamente era questa un’interpretazione a dir poco tendenziosa, da parte di Eichmann, dell’imperativo categorico, perché il suo contenuto non potrebbe mai essere per Kant il semplice rispondere a un comando, quanto piuttosto il rispetto di uno spirito di umanità incarnato dalla legge morale interna all’individuo. E tuttavia questo aspetto di obbedienza acritica – a un sistema freddamente burocratico secondo Arendt, a uno spirito di servizio spinto fino a una scrupolosa abnegazione secondo Eichmann – finisce con il distogliere l’attenzione da qualcosa di più decisivo, e tutt’altro che banale: cioè l’insieme di esperienze – interiori in senso psicologico, esteriori in senso politico e sociale – che è necessario vivere per diventare la rotella di un ingranaggio dell’omicidio su larga scala alla maniera di quelli come Eichmann (il quale – ricordiamolo – si occupava dell’organizzazione del trasporto delle vittime verso Auschwitz). Questo “insieme di esperienze” sono appunto il culto del capo e quello della nazione, sono il razzismo e l’antisemitismo, quel risentimento contro i banchieri e la finanza internazionale che tuttavia non mette in questione il capitalismo: in breve tutto ciò che va sotto l’etichetta di “fascismo” e di “nazismo”, che in sé non è affatto un complesso banale di fattori.
Ora, la banalizzazione vera e propria comincia dopo, all’interno di un processo della memoria che può arrivare fino a qualcosa di ripetitivamente ossessivo o di propagandistico, talvolta, come nel caso dello Stato di Israele. Da questo rischio tutti coloro che hanno a cuore la democrazia dovrebbero guardarsi. Perché è la premessa dell’esplicarsi di quella che, in un precedente articolo, abbiamo chiamato logica dell’inversione reattiva. In essa, che ne abbiano una qualche coscienza o no, si muovono i manifestanti “no pass” che si mettono una stella di David sul petto – a indicare che si sentono discriminati, dimenticando, come ha detto Mario Pezzella, che quel pezzo di stoffa gialla serviva a entrare nei forni crematori, mentre il pass sanitario serve ad accedere a caffè e ristoranti –, o s’infilano, com’è accaduto di recente a Novara, casacchine di carta a righe nella foggia di quelle indossate dagli internati nei lager.
Tutto ciò non è una forma di aperto revisionismo storico o di negazionismo, e neppure una riproposizione dell’antisemitismo e del nazismo in modo diretto: ma è un qualunquismo circa l’orrore che nei fatti, indirettamente, lo rende accettabile. Infatti, dove più o meno tutti – anche quelli costretti a esibire un certificato vaccinale – possono essere considerati ebrei ad Auschwitz, nessuno lo è. La logica dell’inversione compie così il suo ribaltamento di centottanta gradi.