Dunque, la ’ndrangheta imponeva materiali scadenti per la manutenzione del ponte Morandi a Catanzaro. Notizia suggestiva, evocativa, soprattutto allarmante. Dai confini calabresi la notizia, filtrata sul web, ben presto si è ingigantita sui siti dei quotidiani nazionali ed è stata accolta come un fulmine a ciel sereno. Come se nessuno si aspettasse questo tremendo annuncio, come se nessuno potesse immaginare che la mafia calabrese speculava sui lavori di manutenzione stradale.
Naturalmente, la sorpresa è in gran parte derivata dalla ignoranza e dalla sottovalutazione del fenomeno criminale calabrese, e dal fatto che di ponti Morandi, l’opinione pubblica nazionale si è abituata a conoscerne uno solo: quello del viadotto crollato a Genova nell’agosto del 2018, che provocò 43 vittime. Ma sappiamo anche – gli addetti ai lavori sanno – che esiste un terzo ponte Morandi nella Valle dei templi, nella Sicilia agrigentina. Ed è il simbolo dello scempio edilizio.
Adesso, infine, riemerge dalla nebbia calabrese, la macchia del viadotto Morandi di Catanzaro, la più importante arteria stradale d’accesso al capoluogo regionale – dalla bretella che collega i due mari, dal Tirreno allo Ionio –, i cui lavori di manutenzione sono stati realizzati utilizzando materiali scadenti che potrebbero aver minato la stabilità del ponte stesso. Le cronache giudiziarie raccontano che l’impresa coinvolta nella indagine sul ponte Morandi avrebbe utilizzato una malta di qualità scadente per meri motivi di profitto. Nelle intercettazioni ambientali e telefoniche, gli imprenditori sono ben consapevoli della “porcheria” utilizzata per i lavori.
Lo stupore provocato dalla inchiesta sul ponte Morandi di Catanzaro ha riaperto vecchie ferite. Ricordate nel decennio passato le inchieste sul “corpo di reato più lungo d’Italia”, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria? Fu impressionante la scoperta che ogni tratta di lavori per la terza corsia dell’autostrada lunga 433 chilometri, era gestita da una ’ndrina, o famiglia, della mafia calabrese. C’erano loro dietro la movimentazione terra, la fornitura di cemento, il manto di asfalto. Il pizzo veniva chiesto per ogni fase dei lavori. E oggi scopriamo che le ditte colluse con la ’ndrangheta utilizzavano materiali scadenti per la manutenzione del ponte Morandi.
In questi ultimi anni, la Calabria ha cercato di scrollarsi di dosso la maledizione della ’ndrangheta. Cerca di vivere un nuovo Rinascimento. Anche una parte degli intellettuali è impegnata in una sorta di revisionismo culturale, che rimette in discussione la rappresentazione della Calabria come terra maledetta. Insomma, la realtà è ben diversa da quella raccontata in questi decenni.
C’è, in questo revisionismo, l’istinto di sopravvivenza, il bisogno di avere una prospettiva di vita dignitosa per il futuro. Agli inizi degli anni Novanta, la provincia di Reggio Calabria ha avuto la sua guerra di mafia con quasi mille morti. Ogni strada, incrocio, paese piangeva i suoi morti. È vero che la verità giudiziaria non sempre corrisponde alla realtà. Ma in Calabria quella giudiziaria è stata anche una storia di omissioni e anche di eccessi. La ’ndrangheta esiste, è forte, presente in quasi tutti i continenti, un misto di arcaicità e modernità. Oggi si è insediata al Nord. Fa grandi affari in tutti i campi. Non è invisibile come la nuova Cosa nostra siciliana, perché ha ancora bisogno di radicamento territoriale e sociale.
A differenza della mafia dei corleonesi, ha sempre evitato di fare la guerra allo Stato. Ma c’è anche un revisionismo giudiziario che è approdato alla lettura (e a una condanna di primo grado) di una ’ndrangheta stragista che con i corleonesi decise di dichiarare guerra allo Stato, agli inizi degli anni Novanta, uscita dalla guerra interna. Forse sarà anche per questo, per una storia già vista, che i calabresi perbene si sentono soffocare da questa rappresentazione infernale. E si raccontano come gli incompresi del secolo moderno.