Che cosa è successo in Sudan? Quel che avevano detto i gruppi di attivisti e sindacati impegnati nella rivoluzione che voleva costruire la democrazia a tappe a Khartum: “C’è aria di golpe, ma un ritorno al passato sarà impossibile”. La troika che ancora decide i destini del Sudan – Arabia Saudita, Egitto ed Emirati arabi uniti – deve aver ritenuto che l’aria di golpe era autentica, visto che a progettarlo erano loro stessi, ma sull’impossibilità del ritorno al passato ci si sarebbe chiariti col tempo. D’altronde uno scenario analogo è stato impostato in Tunisia, con il “colpo di mano” del presidente Saïd. I grandi sommovimenti del 2011 e del 2019 sono alle spalle; e appunto i loro simboli vincenti – cioè Tunisia e Sudan – dovevano diventare i simboli evidenti di un ritorno al mondo di ieri.
I tempi probabilmente erano maturi anche per motivi interni al Sudan: c’era infatti l’ipotesi di un passaggio, di qui a un mese, della guida del governo a un esponente non più dei militari ma dei civili. Un fatto storico per un Paese governato ormai da decenni dai militari. Ma questo non basta a capire. Il grande riassetto è regionale, e non parte solo da questi due golpe, passa anche dalla prospettata riammissione di Bashar al-Assad nella Lega araba e dall’individuazione di un punto di “compromesso” in Iraq. È il supposto “processo di pace” tra sauditi e iraniani, che vorrebbe arrivare a dare almeno una degna sepoltura ai non molti yemeniti rimasti in vita.
Le usuali levate di scudi della “comunità internazionale”, e degli Stati Uniti in particolare, che hanno annunciato il blocco di settecento milioni di dollari stanziati come aiuti per l’emergenza in Sudan, hanno prodotto solo il positivo rilascio del premier deposto, Abdallah Hamdok, che ora è agli arresti domiciliari senza che si sappia neanche se gli è consentito effettuare telefonate. Ne ha ricevuta una, però, dal segretario di Stato americano, che si è rallegrato della sua scarcerazione. Ma il nuovo “uomo forte” della giunta militare, Burhan, ha detto con precisione giuridica che gli altri esponenti di punta del deposto governo potrebbero essere processati se le proteste continueranno. La responsabilità politica, secondo i golpisti, è anche per fatti successivi all’arresto. Queste parole fanno passare in secondo piano la formale affermazione che la giunta resterà al governo solo fino al 2023. Mentre si può dare grande rilievo ad altre parole, quelle attraverso cui Burhan ha fatto capire che i partiti politici dividono il Paese, e questo il Sudan non può permetterselo. I militari hanno sempre il peso angoscioso di sentirsi votati a garantire il grande bene dell’unità, per cui si sacrificano a gestire tutto loro – a malincuore, ovviamente. Un po’ come il potente vicino, l’egiziano al-Sisi, anche lui sacrificatosi in nome della salvaguardia dell’unità del Paese.
Il perché della poco credibile rassicurazione, “governeremo solo fino al 2023”, e della grande minaccia, “vi processeremo se le proteste continueranno, sebbene siate già stati arrestati”, è presto detto: la sudanese Professionals’ Association – un gruppo di associazioni di categoria e sindacali, che ha sostenuto la rivoluzione contro il despota Omar al-Bashir, riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità, deposto nel 2019 – ha indetto lo sciopero e invitato alla disobbedienza civile; mentre il Sudan Popular Liberation Movement-North, la principale forza ribelle, ha chiamato alla mobilitazione popolare contro la giunta golpista. Ma non c’è solo bianco e nero nel Sudan post-golpe. L’importante Justice and Equality Movement, che ha avuto un peso politico nel governo Hamdok, ha visto la complicità, da parte di esponenti di questo stesso governo, con i militari golpisti.
Se il quadro interno è confuso – come sempre nei momenti successivi ai colpi di Stato, che il Sudan ha conosciuto purtroppo più volte nella sua tormentata storia –, è il senso controrivoluzionario degli eventi sudanesi a essere evidente: iscrivendosi, questi, in un tentativo impossibile delle leadership regionali di fare i conti con le “primavere” senza affrontare nessuno dei temi posti sul tavolo. Il vero bipolarismo arabo, infatti, non è quello tra panarabismo e panislamismo – che si contrappongono nel nome di un identico sistema di governo, basato sulla cleptocrazia, la gerontocrazia e la gestione della propria quota di rendita delle risorse energetiche – ma quello “piazza versus palazzo”. Gli arabi, che non avrebbero altra identità se non quella ancestrale, cioè tribale, dal 2011 tunisino al 2019 sudanese hanno manifestato sempre e solo nel segno delle loro bandiere nazionali. Ma ora gli aneliti delle piazze appaiono messi da parte – in una probabile convergenza negoziata tra palazzo ed establishment religioso ufficiale – per riportare la società a quella stabilità che in Sudan vuol dire anche acquiescenza agli interessi del vicino Egitto e dei suoi protettori del Golfo.