Stavolta il Pd e il suo segretario hanno dimostrato coerenza: non si poteva arrivare a una mediazione al ribasso. Bisognava tenere il punto sul disegno di legge Zan: in particolare sul primo articolo riguardante l’identità di genere (su cui si veda un nostro precedente articolo). Per il Pd è soprattutto una questione d’identità politica: il Partito democratico si chiama così ispirandosi, almeno in parte, al suo omologo americano. Che è il partito dei diritti civili. Anche a essere di centro più che di centrosinistra – a maggior ragione se si è assunta a propria insegna lo slogan, peraltro un po’ anodino, “dalla parte delle persone” –, beh, sulla questione del riconoscimento dei diritti, della difesa delle minoranze, e così via, non si può transigere. Abbandonare, con una formulazione di legge ambigua o ipocrita, a una realtà quotidiana fatta di offese e di aggressioni quegli individui che non vogliono o non possono collocarsi in una declinazione tradizionale della sessualità (mentre negli Stati Uniti, a partire dal prossimo gennaio, a tutti coloro che richiederanno un passaporto sarà data una terza possibilità tra il definirsi maschi o femmine), avrebbe significato tradirli. Vedremo come si comporterà il Pd sull’altra faccenda spinosa riguardante l’eutanasia e il suicidio assistito – temi sui quali è stato chiesto un referendum –, ma per il momento va apprezzata la coerenza. E non è vero che una legge purchessia sarebbe stata meglio di nessuna legge. La battaglia così può continuare, nel parlamento e nel Paese, perché il disegno di legge Zan è caduto con onore.
I renziani, sia quelli esterni sia quelli interni al Pd, sono stati gli affossatori al Senato di un provvedimento che avevano votato alla Camera. I numeri stanno lì a dimostrarlo: il disegno di legge è stato bloccato da una ventina di piccoli bricconi che, sempre più chiaramente, recitano la parte dei Mastella della situazione, oscillando tra un polo e l’altro dello schieramento politico a seconda delle opportunità. Che cosa vogliano ottenere, così facendo, questi puri prodotti del moderatismo e del trasformismo italiani, è piuttosto chiaro. Intanto si propongono come “mediatori”; in seguito si posizioneranno, compatibilmente con le circostanze, da una parte o dall’altra. La loro sopravvivenza politica – questo è evidente – dipende dalla morte di Berlusconi: attendono che l’uomo del bunga-bunga crepi per ereditarne i voti. Una unità tra Forza Italia e Italia viva (già si chiamano in fondo nello stesso modo) è del tutto credibile in prospettiva. Una maniera per sbarazzarsi di un Berlusconi periclitante, ma ancora non proprio morto, sarebbe quella di esaudire il suo desiderio di diventare presidente della Repubblica. Considerando i voti dei delegati regionali – e quelli che il vecchio Caimano potrà comprare – potrebbero mancare soltanto i voti renziani per fare il presidente alla quarta votazione, quella con maggioranza assoluta ma non qualificata.
I renziani, giocando nell’elezione di Berlusconi a capo dello Stato il ruolo di ago della bilancia, prenoterebbero dei posti in lista per le elezioni del 2023, presentandosi tra l’altro come quelli che hanno reso possibile la continuità del governo di Draghi, escluso così dalla competizione per il Quirinale. C’è un punto contrario, tuttavia, a un disegno del genere. Essi in questo modo scoprirebbero troppo presto le loro carte, prima ancora che sia decisa la nuova legge elettorale. Allearsi con la Lega e con Fratelli d’Italia in un centrodestra allargato? Perché no? Si potrebbe benissimo farlo presentandosi, al solito, come i saggi moderatori delle velleità anti-europee dei sovranisti… Accidenti, però, dipende tutto dalla legge elettorale. Se fosse interamente proporzionale, per esempio, sarebbe pressoché inutile passare in anticipo dall’altra parte… Se ci fosse uno sbarramento, poniamo, al 4% (percentuale irraggiungibile da soli), converrebbe contrattare dei posti nelle liste del Pd riservandosi in seguito, nel nuovo parlamento, di fare ancora l’ago della bilancia, se i numeri lo consentiranno. Farsi eleggere con il Pd e poi stare in un governo con i sovranisti, nel nome della moderazione, ecco l’ideale a cui tendere in un trionfo bricconesco.
Sulla base di calcoli del genere, perciò, non è affatto detto che i renziani (a parte qualcuno che si lascerà comprare direttamente) voteranno per Berlusconi presidente. Meglio attendere che crepi. Tuttavia essi, in un’alleanza di centrosinistra, starebbero stretti – altro che il “campo largo” di Enrico Letta! –, la loro ragione sociale principale consistendo nell’oscillare di qua e di là.
Tutto ciò dovrebbe interessare il Pd e il centrosinistra (qualunque cosa debba intendersi con questa espressione) che, nel ridisegnare la legge elettorale, avrebbero prima da riflettere su cosa sarebbe strategicamente prevedibile, anziché soltanto tatticamente consigliabile. È vero che unicamente un’alleanza ampia può competere con una destra oggi data, nell’insieme, al 46% o al 47%. Ma sarebbe consigliabile, in una situazione del genere, una legge elettorale sbilanciata in senso maggioritario che imporrebbe delle alleanze preventive, per giunta tra forze difficilmente amalgamabili tra loro, tenuta anche nel giusto conto la specificità dei 5 Stelle, movimento ex-populista, diciamo così, in piena transizione? Non sarebbe da prendere in considerazione, piuttosto, una legge elettorale proporzionale, con uno sbarramento, così da dare un po’ di posti ai piccoli bricconi e vedere poi, una volta in parlamento, come butta?