Si poteva pensare che la pandemia li avesse tagliati fuori, non soltanto perché i “no vax” e i “no pass” hanno avuto l’effetto di raffreddare le logiche xenofobe a favore di un altro genere di agitazione populistica, ma soprattutto perché la fine, o almeno la sospensione, dell’austerità europea conferisce lauti assegni tranquillizzanti un po’ a tutti. Invece no. Dapprima dodici Stati (di cui il più grande sarebbe la Polonia, con i suoi trentotto milioni di abitanti) hanno inviato una lettera alla Commissione europea con la proposta di costruire muri contro i migranti; poi la Corte costituzionale polacca – un organismo sottomesso al potere politico, la cui presidente è vicina al leader del partito di regime, Jaroslaw Kaczynski – ha sentenziato che la giurisprudenza nazionale ha la prevalenza su quella comunitaria. Il che, in parole povere, vuol dire che la Polonia può infischiarsene di ciò che l’Unione europea dice in materia di Stato di diritto, separazione dei poteri, o politiche riguardanti i migranti.
Se la Polonia volesse uscire dall’Unione, come il suo governo talvolta vorrebbe far credere, si potrebbe anche lasciarla andare, se non fosse che in quel Paese c’è tanta brava gente che si oppone alla politica governativa e non si può abbandonarla a se stessa. Ma l’Europa fa bene a minacciare di tagliare i fondi agli Stati che si mettono di fatto fuori dall’Unione, alle cui leggi e direttive tutti devono adeguarsi. Vediamo un po’ se questi nazionalisti del piffero sono o no sensibili all’argomento soldi. “La Commissione europea agirà”, ha dichiarato – si spera con tutta la determinazione necessaria – Ursula von der Leyen nell’incontro con il premier polacco Mateusz Morawiecki che, per parte sua, ha vantato una sorta di primato del suo Paese nella lotta contro i totalitarismi.
Ora, nessuno vuole disconoscere la storia della Polonia che fu il principale oggetto sacrificale di una spartizione dei territori dell’Est europeo nel 1939, con il famoso patto Molotov-Ribbentrop, né il contributo che essa in seguito ha dato alla dissoluzione dell’impero sovietico. Ma è anche vero che proprio qui sta il busillis che fa non solo della Polonia, ma di quei Paesi in generale (quelli del gruppo di Visegrad), il punto d’innesco dei successivi nazional-populismi: cosa peraltro visibile al massimo grado nella Russia di Putin. Questi regimi non sono mai usciti del tutto dal dispotismo del “socialismo reale” (ben altro dal socialismo possibile): hanno soltanto finito con il metabolizzarlo in forme spurie di “democrazia illiberale”, come la si è chiamata con un termine piuttosto approssimativo. Ciò significa che le erosioni dello Stato di diritto fanno parte, quasi naturaliter, dell’essenza di regimi che sono postdemocratici senza essere mai passati veramente per la democrazia.
La singolare convergenza di questi nazional-populismi con il fascioleghismo nostrano – o, in Francia, con gli eredi di Vichy – non deve stupire. I nazionalismi a sfondo populistico furono infatti gli incunaboli dei fascismi europei al tempo della Prima guerra mondiale. Come i sovranismi di destra non fanno altro che riprendere le loro origini prefasciste, così i regimi operanti nell’Est europeo non sono altro che prosecuzioni di una storia post-totalitaria (o post-stalinista) che ha avuto il suo sbocco in un rinnovato spirito nazionalistico. Anziché di “democrazie illiberali” – termine in cui appare implicito l’elogio nei confronti di una invece molto imperfetta “democrazia liberale” – bisognerebbe parlare di regimi post-totalitari ancora invischiati nel totalitarismo precedente. Proprio qualcosa di analogo, insomma, a un fascismo mai sparito dalla storia, come in Italia, e anzi riproponentesi mediante la linfa ideologica che gli arriva dall’aver fatto un passo indietro verso le origini.
Se le cose stanno così – se, in una storia di lungo periodo, i sovranismi si collocano all’inizio e alla fine dei totalitarismi novecenteschi –, è allora impossibile pensare di proporne una versione “di sinistra”, richiamandosi magari all’esperienza socialdemocratica del secondo dopoguerra, che avvenne su basi nazionali in alcuni Stati europei. La costellazione storica in cui siamo oggi è del tutto diversa. E non c’è più alcuna possibilità di replicare il “compromesso socialdemocratico” a livello puramente nazionale. Siamo in un capitalismo differente rispetto a quello degli anni Cinquanta o Sessanta del Novecento. Siamo dentro un processo di trasformazione sociale e di ibridazione della modernità occidentale con il suo “altro”, proveniente dalle latebre di un colonialismo mai completamente archiviato, che impedisce di pensare in termini di nazioni e di popoli, come ai tempi in cui, in ciascuno dei Paesi europei, c’era un “popolo lavoratore” (senza contare le migrazioni all’interno del continente, comunque presenti anche allora).
In questa situazione, in cui si saldano insieme le eredità dei differenti totalitarismi, appare pressoché scontato che, nei confronti di una sia pur lenta integrazione europea, si determini un movimento di reazione. Il problema è come contrastarlo, mentre sarebbe scioccamente illusorio tentare di dargli un contenuto di segno opposto.